Wise Society : “La ristorazione non è sostenibile, ma gli chef devono esserlo”
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“La ristorazione non è sostenibile, ma gli chef devono esserlo”

di Rosa Oliveri
28 Gennaio 2021

Chiara Pavan e Francesco Brutto, executive chef di Venissa, sono radicali nelle loro scelte green. Ma più di questo è necessario creare delle persone ecomilitanti.

Da tempo Chiara Pavan e Francesco Brutto, executive chef del ristorante Venissa di Mazzorbo, seguono la strada della sostenibilità. Nell’isola lagunare che con Torcello e Burano rappresenta la Venezia Nativa, i due chef possono contare sui prodotti dell’orto coltivato da alcuni pensionati locali all’interno dell’omonima tenuta che dà il nome anche al ristorante. E anche sul pesce della Laguna e sulle erbe spontanee che raccolgono tra i filari della vigna murata. Da quest’ultima la famiglia Bisol (proprietaria della tenuta che è anche un wine resort) raccoglie l’uva Dorona con la quale produce poche migliaia del vino Venissa.

Nonostante l’impegno, però, il ristorante, già una stella Michelin, non è tra i 13 in Italia cui è stata assegnata la nuova Stella Verde. «La cosa ci è logicamente dispiaciuta», ammettono i due. «Riteniamo di aver fatto tanto per migliorare nel senso della sostenibilità ambientale e crediamo di aver anche promosso uno stile di alimentazione e di produzione che dovrà essere dominante in futuro. Tuttavia, la mancata Stella Verde ci sta spronando a fare sempre meglio!».

Chef Chiara Pavan e Chef Francesco Brutto del ristorante Venissa

Chef Chiara Pavan e Chef Francesco Brutto

Cosa significa per voi sostenibilità e quando è nata la vostra coscienza green?

La nostra coscienza green esiste da anni. Abbiamo letto libri, trattati, appoggiato attivamente movimenti ambientalisti, votato programmi politici che prendessero in considerazione il problema del global warming. Siamo persone impegnate e preoccupate per il nostro futuro e quello delle prossime generazioni. Sostenibilità, per noi, significa agire nel mondo consapevoli che viviamo in un momento di cambiamento climatico pauroso, consapevoli del fatto che ogni nostra azione può peggiorare o in parte tentare di arginare e affrontare questo cambiamento. Sostenibili sono le scelte che tendono ad arginarlo e affrontarlo.

Come si applica l’ecosostenibilità a un ristorante?

La ristorazione non è un modello ecosostenibile di per sé, come nessuna attività turistica lo è. Il solo costruire un ristorante, possedere dei frigoriferi, usare energia elettrica e gas estratto dal terreno implica ovviamente il NON essere ecosostenibili. Il viaggio che i clienti intraprendono per arrivare, gli aerei e le navi, non sono sostenibili. Tuttavia ciò che noi ristoratori possiamo fare è ridurre il nostro impatto ambientale e restituire alla natura una parte di ciò che le togliamo, adottando pratiche che tendano ad azzerare l’impronta carbonica del nostro vivere. L’abilità del cuoco e del ristoratore è restituire il più possibile.

Inoltre, la cosa più importante, secondo noi, è rendere consapevoli le persone che ci stanno attorno, a partire da collaboratori e clienti, di quello che sta succedendo. Una persona, un ristoratore da solo non può combattere contro tutti. Oggi il compito dello chef è di sensibilizzare, di dare l’esempio per ciò che concerne l’alimentazione, la produzione di cibo, la conservazione, la gestione dello scarto e dei rifiuti. Crediamo sia importante coinvolgere i ragazzi della brigata insegnando loro perché non usare la plastica usa e getta, perché è importante raccogliere ciò che cresce spontaneo e nell’orto piuttosto che comprare alimenti dalla grande distribuzione, far vedere loro come effettivamente il mondo che vivono si sta lentamente disgregando. E’ importante inoltre sensibilizzare il cliente, proponendo un’alimentazione in cui non c’è la carne, offrendo acqua depurata e non in bottiglia, rendendoli consapevoli della gestione degli scarti, delle nostre modalità di produzione e lavorazione. Più di applicare l’ecosostenibilità è necessario creare delle persone ecomilitanti!

Voi sostenete la radicalità delle scelte green, l’avete mai considerata una limitazione?

Limitazione o lungimiranza? Lo sforzo creativo e immaginifico che applichiamo all’ottimizzazione delle risorse, degli sprechi e dei metodi di conservazione o comunque delle pratiche cosiddette green, verrà sicuramente utile quando altre persone lo vorranno intraprendere e noi saremo pronti a spiegarlo e a diffonderlo il più possibile. Non tutti hanno la fortuna di poterlo fare, quindi noi lo consideriamo un privilegio più che una limitazione.

Piatto degli chef Pavan e Brutto

Foto Venissa

La vostra scelta plastic-free è totale con l’eliminazione della plastica nella catena della conservazione. E’ stato difficile?

Sì, all’inizio ha comportato degli sforzi per attuare un cambiamento di mentalità e non usare più il sottovuoto e la pellicola. Sforzi per trovare soluzioni alternative con l’aiuto anche di consulenti HACCP. Ma oggi quando a qualche evento esterno vediamo l’utilizzo da parte di altri ristoratori di sacchetti sottovuoto, ci fa impressione.

Uno dei vostri cavalli di battaglia è la fermentazione che, va detto, è la riscoperta di metodi millenari di conservazione. Quali sono i vantaggi della fermentazione?

Le fermentazioni (in vetro) permettono di stoccare produzioni vegetali provenienti dall’orto senza utilizzare plastica ed energia elettrica dei freezer. Questo perché quando una produzione dell’orto è pronta va raccolta per intero e non può essere utilizzata tutta immediatamente. Normalmente le verdure o la frutta si cuocerebbero e magari si congelerebbero e si conserverebbero in freezer. La fermentazione, invece, permette di evitare tutto questo e consente inoltre di ottenere profumi e acidità inedite. Fermentare permette anche di evitare gli scarti, basta pensare ai garum fatti con gli scarti dei pesci o alle salse fatte con gli scarti della frutta secca frullata e setacciata.

La vostra conduzione della ristorazione è molto legata al vostro orto con i vegetali che, insieme al pescato locale, sono alla base dei vostri piatti. Come nasce un piatto green per uno stellato considerando che non sempre ci sono le materie prime disponibili?

Noi cambiamo relativamente spesso i piatti. Quando un prodotto termina, sfoderiamo creatività e usiamo altri prodotti.

Come riutilizzate gli scarti?

Quello che dalla maggior parte delle persone viene chiamato scarto, noi lo chiamiamo “cosa possiamo fare con questo?”. Tutto ha una seconda vita anche solo fosse diventare compost per nutrire il terreno che ci restituisce le verdure… e comunque ne facciamo veramente poco. Di base, quando usiamo un prodotto lo usiamo in tutte le sue parti, dove c’è scarto viene usato nelle fermentazioni oppure come base per il pranzo del personale. E infine, per lo scarto irriducibile abbiamo il compost, che va ad alimentare i nostri terreni per orti e vigna!

Il territorio nel piatto è ormai lo slogan quasi indistinto dell’alta ristorazione, ma quanta realtà c’è in queste affermazioni? Si può davvero cucinare a chilometro zero o vero, per esempio non aggiungendo l’olio alle preparazioni se non si è in un territorio vocato all’olivicoltura?

Il km zero di per sé vuol dire poco. Comprare frutta, verdura, carne o pesce a km zero, ma provenienti da allevamenti non interessati alla causa ambientale è un po’ una contraddizione. Se il pollo che alleva il mio vicino di casa viene nutrito con granaglie del Minnesota dove sta il km zero? Se il vino prodotto in Italia, in Veneto, cresce grazie a pesticidi e diserbanti ha senso comprarlo? L’unica arma a disposizione delle persone per capire come si deve mangiare è la conoscenza.

Il fatto di assumere che il prodotto a km zero sia più buono di qualcosa più distante è un esempio di eco-ignoranza. Se invece il consumatore viene portato a conoscenza di come le cose andrebbero fatte, se viene edotto su come leggere un tracciamento di filiera, se va a conoscere personalmente le persone che gli vendono il cibo, se magari si autoproduce il cibo, ecco che non ha più senso parlare di km zero, ma di responsabilità ambientale. Sulla questione dell’olio comunque, crediamo di sì, non andrebbe usato, mi sembra che Niederkofler e Lazzarini (che lavorano in montagna) ci riescano con discreti risultati, no?

Ristorante Venissa

Foto Venissa

Rosa Olivieri

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