Andrea Carletti, architetto e ideatore di Street food mobile spiega come è nata la sua attività a partire dal recupero del cibo invenduto e dal riutilizzo di mezzi dimessi.
Architetto, imprenditore, chef. Andrea Carletti, toscano di nascita, ligure d’adozione, ha fatto della flessibilità e del “recupero” il suo mestiere. «Tutta colpa – confessa – della mia passione per il cibo e della mia profonda avversione per lo spreco, non solo degli alimenti ma di tutto ciò che è possibile recuperare». Da questi principi, esattamente dieci anni fa (era il 23 settembre del 2007), Carletti, classe 1974, dopo una laurea in Architettura e un avvio di carriera in progettazione di design e interiors, si sposta verso l’ideazione dei concept per Street Food Mobile la sua società che progetta e allestisce veicoli speciali – dall’ape al container – per il cosiddetto cibo da strada.
Com’è nata l’idea alla base di Street food mobile?
Vivo a La Spezia, una città dove l’allevamento di mitili è una tradizione storica. L’idea iniziale era proprio quella di offrire ai muscolai un’alternativa alla svendita del prodotto invenduto alla grande distribuzione. In certi periodi dell’anno, infatti, i muscoli crescono troppo e devono essere staccati dagli allevamenti con una grandissima fatica da parte degli agricoltori del mare che si ritrovano a gettare via il prodotto oppure a venderlo a circa 1,50 euro al chilo. Il progetto iniziale era, quindi, quello di recuperare il prodotto invenduto, trasformarlo e renderlo appetibile per il consumatore finale reimmettendolo sul mercato a 4.50 euro a panino con un etto e mezzo di prodotto. Purtroppo il progetto con loro non partì, ma io avevo ormai le idee chiare e andai avanti.
Come ha sviluppato il progetto, quindi?
Ho deciso di testare personalmente la mia idea e in occasione di Cheese di Slow Food a Bra con un’Ape Piaggio recuperata riuscimmo a proporre un prodotto che coniugasse i territori del Piemonte e della Liguria: un panino con burro di Elba e acciughe di Monterosso. Arrivammo a preparare 1890 panini e per me fu la prova che lo street food in stile americano poteva benissimo sposare la nostra tradizione gastronomica.
Oltre al recupero del cibo, lei ha messo al servizio del progetto la sua creatività di architetto. Perché scelse proprio un’Ape?
È un mezzo simbolo della nostra tradizione. Ho ritenuto che fosse il packaging ambulante ideale per quell’idea che aveva da subito una forte impronta italiana. Ho utilizzato l’Ape piaggio usata da Ferrero per uno spot di EstaThé e che era ferma da tempo sul piazzale dello stabilimento di Pontedera. La acquistai e recuperai, trasformandola in un ristorante ambulante, in un’ottica di economia circolare di cui, sono convinto, non possiamo fare più a meno.
Oggi queste Ape mobili sono in tutto il mondo e offrono diverse tipologie di street food. Qual è il fil rouge che le lega?
Lo street food è una filosofia di vita e tutto è streetfoodizzabile, dalle trofie al pesto ai piatti più raffinati. Tra i nostri clienti, ad esempio, oltre a molte aziende importanti abbiamo anche proposte di grandi chef come il panino gourmet di Cristina Bawerman su Aperomeo. Insomma la mia idea è quella di ridare un ordine etico ed estetico alla proposta del cliente. La flessibilità dell’ape, poi, permette di progettare davvero proposte di qualità come un piccolo ristorante in movimento che promuove la cultura del buon cibo locale.
Cosa vuol dire per lei sostenibilità?
I nostri progetti parlano di sostenibilità dall’hardware al software: dal recupero di un mezzo dismesso, ai minori costi e costruzioni, fino al recupero del cibo da proporre in modo diverso. Non ultimo, la mia società è riuscita a mettere in moto un certo indotto di artigiani e a permesso a tanti lavoratori di reinventarsi.
Dove si trovano oggi questi ristoranti ambulanti?
Abbiamo rimesso su strada api, furgoni, container dismessi. Dall’ape Tramezzino alla Gelape. Ci sono mezzi e api di Street food mobile a Roma, Milano, New York, Boston, Mosca e persino in Giappone e Cina.
Si è mai sentito dire “non è possibile”?
Sempre. La parola d’ordine di molti artigiani spesso è proprio “è impossibile”. Io però, che ho avuto la fortuna di conoscere Renzo Piano e assistere anche a sue lezioni, ho fatto mio un suo consiglio “non cascate nella parola impossibile”. Se avessi dato retta a tutto quello che mi sento dire, non sarei mai partito, neanche con il primo prototipo.
Lei è oggi un fautore dell’economia circolare. Come si è avvicinato a questa filosofia di vita?
Credo che l’economia circolare sia l’unica strada percorribile oggi. Io credo molto nel riutilizzo e nel ridare nuova vita agli oggetti, anche se si tratta di una vita diversa da quella per cui erano stati ideati. Di recente poi ho letto il libro Circular Economy. Dallo spreco al valore (Egea, 2016 autori Peter Lacy, Jakob Rutqvist, Beatrice Lamonica) e ho rafforzato la mia convinzione.
Quali sono i progetti in cantiere?
Ne abbiamo tantissimi. Intanto, stiamo elaborando un nuovo modello per recuperare il cibo ed evitare lo spreco dal produttore al consumatore. Ogni anno circa 690 miliardi di dollari di cibo vengono gettati, in pratica, il 50% di quello prodotto e comprato viene gettato. In questo progetto rientra “Intensive Food Care” (presentato al Milano food week 2017) con il quale vogliamo trasformare lo street food in uno strumento sociale per “alleviare” situazioni di precarietà attraverso il riutilizzo dei prodotti invenduti. Dal punto di vista delle nuove scommesse, invece, dopo dieci anni di terra stiamo lavorando per andare in mare, con il nostro Sea food mobile con cui daremo nuova vita a imbarcazioni dismesse trasformandole in cucine galleggianti per cibo di mare.