Non sempre chi provoca i maggiori danni all’ambiente ne paga anche le conseguenze. C'è però chi lotta per un principio etico che mira all'uguaglianza dei diritti, dei doveri e delle risorse di fronte ai cambiamenti climatici
Pagare il prezzo più alto per danni ambientali provocati da altri. Dalla lotta contro questo stato delle cose nasce il concetto di giustizia climatica. L’ambiente soffre, la Terra è in pericolo, ma chi paga maggiormente il prezzo di inquinamento, surriscaldamento globale e delle loro conseguenze più pericolose non è chi vi ha contribuito in modo più evidente ma le categorie sociali e i paesi più deboli. E qui risiede l’idea di ingiustizia ambientale e sociale cui si oppone la richiesta, continua, di giustizia climatica e sociale.
Che cos’è la giustizia climatica
Secondo la definizione del dizionario Treccani, la giustizia climatica è il “Principio etico per cui si costituisce una condizione di parità ed uguaglianza dei diritti, dei doveri e delle risorse di fronte ai cambiamenti climatici di dimensione locale e planetaria, in particolare quelli negativi, nei quali ha un forte impatto l’azione umana”.
Oltre all’aspetto ambientale, quindi, la giustizia climatica è uno dei temi più discussi nel dibattito sui cambiamenti climatici. Di fatto, si tratta di un concetto piuttosto recente, figlio del nostro tempo, ovvero dell’antropocene, che traduce l’espressione inglese climate justice, di cui si parlò espressamente nel 1992 nel Bali Principles of Climate Justice all’Earth Summit di Johannesburg.
Quindi, giustizia climatica è il termine usato per indicare che il riscaldamento globale costituisce una questione etica e politica e non solo di natura ambientale o climatica. La questione fondamentale riguarda il paradosso per cui i paesi (e le categorie) più colpiti da catastrofi ambientali siano quelli in via di sviluppo e più sofferenti, quando il riscaldamento globale è causato principalmente dalle nazioni industrializzate ovvero coloro che subiscono le conseguenze più gravi del cambiamento climatico (e sono spesso destinati a diventare migranti climatici) sono coloro che hanno contribuito in misura minore a crearlo ed alimentarlo.
Storia della nascita del concetto di giustizia climatica
Il primo vertice sulla giustizia climatica si è svolto nel 2000 a L’Aia, in concomitanza con la Cop6, ovvero la numero 6 delle Conferenze delle parti. Durante il vertice è stato affermato che il cambiamento climatico “è una questione di diritti” ed è necessario “costruire alleanze tra Stati e confini” contro il cambiamento climatico e a favore dello sviluppo sostenibile. In seguito, i gruppi ambientalisti internazionali si sono incontrati a Johannesburg per il Summit della Terra 2002 (noto anche come Rio+10) dove sono stati adottati i Principi di Bali in materia di giustizia climatica e nel 2004, è stato costituito il Gruppo di Durban per la giustizia climatica dove i rappresentanti delle ONG e dei movimenti popolari hanno discusso le possibili politiche per affrontare il cambiamento climatico.
La Climate Justice Action
Inoltre, nel 2009, in vista del vertice di Copenaghen, è stata istituita la Climate Justice Action che ha proposto la disobbedienza civile e l’azione diretta durante il vertice e molti attivisti per il clima hanno usato lo slogan “cambiamento di sistema non cambiamento climatico”, mentre nell’aprile 2010 a Tiquipaya, in Bolivia, durante la Conferenza Mondiale dei Popoli sui Cambiamenti Climatici e i Diritti della Madre Terra, è stato pubblicato un “accordo popolare” in cui si chiede una maggiore giustizia climatica. Nel 2010 venne anche creato il fondo annuale da 100 miliardi di dollari per dare infrastrutture e tecnologie verdi ai paesi poveri e si decise per un “meccanismo di compensazione per i paesi colpiti o danneggiati dal cambiamento climatico”, nominato nell’Accordo sul clima di Parigi ma mai realizzato per via dei contrasti nell’assumersi le responsabilità dei gas serra dei vari paesi, partendo da quelli sviluppati e più inquinanti.
Cambiamenti climatici e giustizia climatica
La capacità delle popolazioni di affrontare le conseguenze negative dei cambiamenti climatici è influenzata quindi da fattori quali il reddito, il gruppo etnico, la classe, il genere e la politica. E se alcuni paesi e popolazioni sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici, ci sono vere e proprie categorie che ne subiscono i maggiori disagi.
Katrina, simbolo dell’ingiustizia climatica
Oggi è ormai unanimemente riconosciuto che l’Uragano Katrina ha fornito informazioni su come i disastri dovuti ai cambiamenti climatici colpiscono in modo diverso persone con diverse caratteristiche, poiché tale evento ha avuto un effetto sproporzionato sui gruppi a basso reddito e sulle minoranze. Gli studi sulle caratteristiche di gruppo etnico e classe dell’uragano Katrina suggeriscono quindi informazioni importanti sulla giustizia sociale climatica ovvero che i più colpiti da tale evento sono stati i più poveri, gli afroamericani, gli ispano-americani, gli anziani, i malati e i senzatetto. Le comunità a basso reddito disponevano, infatti, di risorse limitate per l’evacuazione prima della tempesta.
Il diritto al clima è universale
Da questo scaturisce però l’opposizione che, di fatto, un ambiente sostenibile sia un diritto e non un privilegio. E se governi e organizzazioni sono d’accordo nel ritenere diritto universale dell’uomo di vivere in un ambiente sostenibile, di fatto la giustizia climatica continua a essere invocata solo da chi è attento all’ambiente e ai diritti umani e dagli attivisti che conoscono bene la questione come Vanessa Nakate che del diritto al clima e al benessere ha fatto la sua battaglia.
Le azioni legali per la giustizia climatica
Nel 2012, l’avvocato olandese Roger Cox suggerì un intervento giudiziario contro il governo per forzare l’azione contro il cambiamento climatico. Nel 2013, la Fondazione Urgenda, con 900 co-presentanti, ha intentato una causa contro il Governo dei Paesi Bassi “per non aver adottato misure sufficienti per ridurre le emissioni di gas serra che causano pericolosi cambiamenti climatici”. Nel 2015, la Corte distrettuale dell’Aia ha stabilito che il governo dei Paesi Bassi deve fare di più per ridurre le emissioni di gas serra per proteggere i suoi cittadini dai cambiamenti climatici (causa clima Urgenda). Tale novità è stata descritta come una “sentenza che ha stabilito un precedente” e come la “prima causa al mondo per responsabilità climatica“. Dopo questa sentenza dei Paesi Bassi del 2015, gruppi di altri paesi hanno tentato lo stesso approccio giudiziario.
La prima causa contro lo Stato italiano per inazione climatica
In Italia, da qualche anno ci si preparava a un’azione importante – chiamata evocativamente Giudizio universale e lanciata da centinaia di attivisti e associazioni e approdata in tribunale, il 14 dicembre 2021 con la prima udienza della causa contro lo Stato italiano per inazione climatica.
La causa, depositata al Tribunale di Roma a giugno 2021, è stata avviata da 203 ricorrenti: 17 minori – rappresentati in giudizio dai genitori, 162 cittadini e 24 associazioni. Lo Stato italiano dovrà rispondere in aula delle sue responsabilità di fronte all’emergenza climatica. Primo ricorrente dell’azione è l’Associazione A Sud, da anni attiva nel campo della giustizia ambientale e nella difesa dei diritti umani che l’emergenza climatica rischia di compromettere.
L’azione legale è stata promossa nell’ambito della campagna di sensibilizzazione “Giudizio Universale”, a voler sottolineare la portata globale della sfida climatica e l’urgenza di mettere in campo azioni di contrasto. Tra le argomentazioni della causa legale spicca, infatti, la relazione tra diritti umani e cambiamenti climatici e la necessità di riconoscere un diritto umano al clima stabile e sicuro. Le richieste specifiche avanzate dai ricorrenti al giudice sono: dichiarare che lo Stato italiano è responsabile di inadempienza nel contrasto all’emergenza climatica; condannare lo Stato a ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli 1990, applicando il principio di equità e il principio di responsabilità comuni ma differenziate (Fair Share), ossia tenendo conto delle responsabilità storiche dell’Italia nelle emissioni di gas serra e delle sue attuali capacità tecnologiche e finanziarie attuali.
Fridays for future e giustizia ambientale
Tra le associazioni promotrici della campagna c’è anche Fridays for Future Italia che da tempo hanno messo la questione diritto al centro delle loro contestazioni e proposte. Infatti, Fridays for future Italia ha invocato la giustizia climatica durante la Pre-Cop 26 e nella campagna Ritorno al Futuro, che ha raccolto 7 proposte (e un Allegato Tecnico) per ripartire post-Covid. L’obiettivo della campagna oggi è quello di chiedere che si rilanci l’economia puntando sulla Transizione Ecologica, per risolvere in questo modo sia la crisi economica che quella climatica.
“In un’ottica di Giustizia Climatica – dicono – , la riconversione deve avvenire tutelando i lavoratori e le lavoratrici ed il suo costo deve gravare su coloro che hanno le maggiori disponibilità economiche, nonché le maggiori responsabilità nella crisi climatica. È inoltre necessario predisporre un piano di aiuti economici per le persone ed i territori che subiscono direttamente le conseguenze degli stravolgimenti climatici. Lo Stato deve tornare a garantire davvero la salute di tutti i suoi cittadini, indipendentemente da reddito e status, e a tal fine deve rifinanziare in modo consistente il sistema sanitario nazionale, indebolito drasticamente negli ultimi anni dai tagli alla spesa pubblica. È inaccettabile il finanziamento dell’industria bellica, e tali fondi devono essere devoluti al welfare state e alla riconversione. La crisi climatica infine, oltre a minacciare la salute del nostro paese, ha conseguenze perfino peggiori sui Paesi più poveri. La siccità, la scarsità di cibo, la desertificazione alimentano tra l’altro le migrazioni di massa e i conflitti armati”.
Maria Enza Giannetto