Wise Society : Sovranità alimentare: cos’è e cosa significa davvero

Sovranità alimentare: cos’è e cosa significa davvero

di Lucia Fino
29 Giugno 2023

Il tema della sovranità alimentare è stato dibattuto molto, ma in realtà non significa - come molti pensano - autarchia alimentare. Facciamo il punto.

Diritto al cibo di qualità, prodotto in maniera sostenibile ed equa e adatto al popolo che lo consuma perché rispecchia storia, tradizioni, tipi di coltivazioni secolari. Tutto questo è la sovranità alimentare. Un concetto molto spesso frainteso perché non vuol dire affatto autarchia e ancora meno rimanda al sovranismo ma, al contrario, parte “dal basso” soprattutto dagli agricoltori e dalle popolazioni (in particolare quelle meno fortunate) che vogliono riaffermare i diritti di produrre da soli, in una filiera corta, spesso piccola e familiare e non arrendersi allo strapotere delle potenti multinazionali del cibo, quelle che lavorano sui grandi numeri  più che sulla qualità alimentare e sul rispetto delle produzioni locali. In Italia questa idea, che ha una lunga storia, ha trovato di recente un riconoscimento politico ufficiale perché il Ministero dell’Agricoltura è diventato anche della Sovranità Alimentare. Vediamo che cosa significa in pratica e perché è proprio la sovranità alimentare è uno dei campi in cui si gioca il futuro del Made in Italy.

uva per vendemmia

Foto Shutterstock

La sovranità alimentare in Italia

Cosa vuol dire sovranità alimentare in Italia oggi, dopo la decisa presa di posizione del Ministero dell’Agricoltura che l’ha riaffermata a chiare lettere addirittura nel suo nome? Nonostante qualche critica e qualche scetticismo l’idea italiana di ribadire il diritto alla sovranità alimentare non è un caso unico in Europa: anche in Francia il Ministero ha preso questa denominazione, già mesi prima che nel nostro Paese. Sovranità alimentare non vuol dire autarchia: l’idea di rimanere legati solo al consumo solo di prodotti italiani è ovviamente superata e obsoleta.

Al contrario, l’obiettivo è quello di garantire alla popolazione italiana cibo di qualità, prodotto secondo criteri sostenibili e che rispecchi le nostre tradizioni. Insomma si parla di valorizzazione del cibo locale rispetto ad alimenti che sono sì “senza confini” e magari a basso costo ma anche anonimi e standardizzati. Sovranità alimentare in Italia vuol dire quindi salvaguardia delle nostre eccellenze, attenzione alla sicurezza alimentare e difesa della biodiversità, del km 0 e della filiera corta.

Quanto cibo importa il nostro Paese?

E’ bene premettere un concetto: sovranità alimentare non vuol dire chiudersi al mercato estero. Questo è infatti uno scenario impossibile perché il nostro Paese non è autosufficiente per quanto riguarda molti prodotti. Secondo una recente ricerca di Federalimentare oggi importiamo il 40% del grano (indispensabile per la produzione di pasta) e il 60% dell’olio, mentre l’Italia riesce a “fare da sola” solo per quanto riguarda riso, ortofrutta, uova e pollo. Quello a cui a possiamo aspirare è invece aumentare le esportazioni dei cibi di eccellenza che ci caratterizzano (per esempio vino e formaggi tipici) e ridurre nello stesso tempo la dipendenza dall’estero, rinforzando la produzione nazione, questo per mettersi al riparo dall’impatto di crisi internazionali, come si è visto, drammaticamente, nel caso del grano ucraino, bloccato nei porti per mesi dalla guerra.

Campo di grano

Foto di Raphael Rychetsky / Unsplash

La storia della sovranità alimentare

La storia della sovranità alimentare in realtà arriva da lontano, ed è lunga e complessa. Già nel 1948 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo affermava il diritto all’accesso, fisico ed economico, a un cibo sufficiente, sicuro e nutriente. Questo accade quando ogni comunità riesce a produrre cibo in maniera il più possibile libera, adeguata alle proprie esigenze e non condizionata dalle pressioni esterne.

Negli anni l’agricoltura ha avuto un’evoluzione con molti aspetti positivi, ma il progresso ha portato con sé molti lati negativi, tra i quali il progressivo abbandono di molte colture e produzioni locali a favore di altre più redditizie ma spesso meno sostenibili per l’ambiente, perché di tipo intensivo e anche meno disponibili per le popolazioni del posto. Terra, sementi, acqua infatti, in molte parti del Pianeta sono state via via sottratte ai coltivatori locali per diventare monopolio di grandi multinazionali e di organizzazioni sovrastatali, che influiscono sul mercato del lavoro e del prodotto finito.

Un’idea in evoluzione

Il concetto di sovranità alimentare nasce proprio come risposta a questo problema nel 1996 dai membri di Via Campesina, un movimento internazionale di agricoltori, nel corso del convegno di Tlaxacala in Messico. La sovranità alimentare si contrappone a quello della semplice sicurezza alimentare per diventare qualcosa di più complesso e valorizzare il rapporto fra un’agricoltura equa e sostenibile e biodiversità, ecosistemi, cultura tradizionale.

In questi ultimi anni molti passi in avanti sono stati fatti: nel 2007 la Dichiarazione di Nyéléni, in un forum a cui hanno partecipato sei settori diversi (contadini, piccoli agricoltori, pescatori, allevatori, popoli originari, operai) ha perfezionato la sua definizione che è stata quindi adottata da oltre ottanta Paesi e nel 2011 ha trovato spazio anche in Europa. Dal 2020 il concetto di sovranità alimentare è stato adottato nella costituzione e nella legislazione di diversi Paesi come Ecuador, Mali, Egitto, Bolivia, Nepal.

Agricoltura

Dall’agrobusiness all’agroecologia

I problemi legati ai cambiamenti climatici, alla deforestazione e al land grabbing (l’esproprio dei terreni a danno delle popolazioni più deboli) ha fatto diventare l’idea di sovranità alimentare dinamica, in evoluzione e sempre più importante. Perché si possa realizzare bisogna infatti lavorare non contro ma per la natura, con scelte più sostenibili.

La scommessa insomma è passare in tempi brevi dall’agrobusiness, che considera più il guadagno che il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente, all’agroecologia. Questo vuol dire limitare le monoculture che rendono meno fertile il terreno e tolgono risorse ad altre coltivazioni, preferire allevamenti di piccole dimensione a quelli intensivi che hanno anche alti consumi energetici, ed evitare i metodi di pesca distruttivi che impoveriscono il mare.

Agroecologia vuol dire tutelare la ricchezza naturale dei suoli, osservando i cicli naturali delle colture, e fare sì che contadini e allevatori riescano a guadagnare in modo equo con la loro produzione e possano aggiornarsi costantemente senza spendere troppo. Un impegno attivo per mantenere in vita le zone rurali, proteggendole dallo spopolamento e preservando la vita delle fattorie e delle piccole produzioni locali. Quelle a km O dove spesso si nasconde l’eccellenza e la qualità.

Lucia Fino

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