Il modenese Filippo Bassi, ricercatore dell'Icarda è l'inventore delle varietà di frumento in grado di adattarsi alle difficili condizioni climatiche africane
Riuscire a coltivare grano duro in Paesi dove la carestia la fa da padrona a causa del caldo torrido. È questo il progetto di ricerca sull’impronta genetica condotto da Filippo Bassi ricercatore di ICARDA (Centro Internazionale per la Ricerca Agricola in Aree Asciutte) e da Rodomiro Ortiz professore alla SLU (Università Svedese di Scienze Agrarie) che si è aggiudicato il Premio Olam 2017 per l’Innovazione nella Sicurezza alimentare.
Il progetto, finanziato dal Consiglio per la ricerca svedese, ha utilizzato tecniche di riproduzione molecolare non-GM per sviluppare varietà di grano duro in grado di sopportare una temperatura costante di 35-40 gradi nella savana del bacino del fiume Senegal, nonché di crescere in tempi così veloci da permettere agli agricoltori di coltivare grano nei tempi di riposo tra una stagione e l’altra del riso (coltivato per 8 mesi l’anno). Un progetto molto importante per Bassi, 35 anni, modenese oggi di stanza a Rabat in Marocco (dopo aver studiato ed essersi formato negli Usa, in Australia e in Germania) che oggi è il responsabile del frumento duro all’Icarda.
Filippo, da quanto tempo studia il grano e quanto tempo ci ha messo a selezionare questa particolare qualità di grano capace di resistere alle alte temperature?
Lavoro con grano da 10 anni, sin dall’epoca del mio master in Australia. Le varietà selezionate – a oggi sono due (Amina e Habi) ma presto aumenteranno a cinque – sono il risultato non solo del mio lavoro, ma anche di quello fatto prima che io arrivassi ad Icarda. A livello di saggi abbiamo provato diverse migliaia di varietà possibili prima di arrivare a queste e, a livello di tempo, sono bastati 3 anni di lavoro nel fiume Senegal per trovare le più tolleranti alle temperature. Le condizioni climatiche sono, infatti, così drastiche che trovare le varietà vincenti è relativamente facile. La parte difficile è stata, semmai, sviluppare qualche varietà che riuscisse a tollerare il calore e impiantare le stazioni di ricerca sul fiume in modo da non causare errori sperimentali.
Che significato ha, a livello internazionale, questa sua scoperta?
Ci sono tanti ricercatori che, come me, lavorano per adattare le colture ai cambiamenti climatici, siano essi nella forma di tolleranza al calore o siccità o malattie. Il fatto che abbiamo sviluppato ora un bel posto dove fare saggi per la resistenza al calore nel frumento (il fiume Senegal) e che abbiamo trovato dei materiali tolleranti ha sicuramente un’importanza internazionale. In questi giorni sono stato contattato da ricercatori in molti paesi che sono interessati a usare le varietà da noi sviluppate per migliorare la resistenza al calore nelle loro zone. E sarà un piacere fornire loro i semi perché possano raggiungere il risultato.
E, invece, come ci si sente a vincere il Premio Olam 2017 per l’innovazione nella sicurezza alimentare?
A livello monetario credo sia uno dei premi più importanti per chi lavora in agricoltura, secondo solo al World Food Prize e, ovviamente, al Nobel. Anche se è un premio giovane, la giuria che seleziona il vincitore è composta da persone incredibili, di altissimo livello scientifico. Inoltre, la competizione è piuttosto serrata, con centinaia di progetti che vengono considerati per il premio ogni due anni. Insomma, si tratta di una bella competizione tra persone che credono molto nel loro lavoro e nell’aiutare il prossimo, giudicato da persone ancora più dedicate a migliorare il mondo. Un bel connubio. Non pensavo veramente che il nostro progetto potesse vincere un premio, ma ora che ci siamo riusciti stiamo cercando di capitalizzare al massimo sulla visibilità che ci ha fornito, nella speranza di attirare tanti partner e agenzie di sviluppo per aiutarci a far diventare il Fiume Senegal una vera grande zona di produzione del duro.
Quali paesi, in particolare, ne trarranno beneficio?
In realtà un po’ tutti. Il beneficio diretto è per Senegal, Mauritania e Mali che potranno ora coltivare grano duro su 200.000 ettari di terreno prima lasciati a giacere. Allo stesso tempo, Egitto e Sudan hanno condizioni molto simili, e quindi potranno direttamente utilizzare tali varietà per migliorare la loro produzione. Tanti altri paesi sub sahariani coltivano a oggi riso e lasciano il terreno a giacere durante il periodo invernale mentre ora potranno approfittare dello sviluppo per esplorare la coltivazione di un cereale non molto conosciuto a sud del Sahara. Per i paesi sviluppati, l’impatto sarà probabilmente indiretto. Nel senso che i danni da alte temperature durante il periodo di fioritura sono molto comuni, e diverranno sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico. Le varietà da noi sviluppate sono tolleranti a tali effetti. Per tanto ora i breeder come me prenderanno le nostre varietà, le incroceranno con le varietà già adatte alla loro zona di interesse, per ottenere varietà ancora migliori e con resistenza alle alte temperature.
Al momento, si tratta, ovviamente, di un progetto pilota. Cosa bisogna fare perché venga “esportato” su larga scala?
La cosa non è mai facile. Per ora stiamo moltiplicando le semenze per poterle poi donare agli agricoltori. Da lì, poi, la parte di ricerca si fermerà un po’ e comincerà quella di sviluppo. Quindi serviranno macchinari, formazione e aiuto governativo per creare un mercato per i grani prodotti. Sarà un lavoro difficile e ci serviranno tanti partner e i giusti fondi. Speriamo molto nella Cooperazione Italiana che lavora in modo molto attivo in Senegal e che ha già dimostrato di essere capace di creare un impatto positivo lavorando con il frumento duro. Penso, però, che ci vorrà l’interesse anche di altre cooperazioni e dell’industria per coprire tutti gli aspetti chiave dell’introduzione di una coltura “sconosciuta” in una zona così particolare come il Fiume Senegal.
Pensa che se fosse rimasto in Italia sarebbe mai arrivato a questa scoperta?
Non saprei. Ci sono tanti italiani che vincono premi anche molto più prestigiosi del premio Olam. Certo, spesso lo fanno all’estero, ma qualche volta capita anche in Italia. Siamo un bel Paese di ricercatori, quindi immagino che sarebbe stato possibile. La parte più difficile sarebbe stata, però, trovare fondi per fare il lavoro, e in particolare, fondi per farlo sul fiume Senegal. La ricerca italiana in agricoltura è sempre più guidata dalle necessità delle ditte sementiere e dell’industria nazionale. Per questo dubito che ci sarebbe stato l’interesse a dare fondi per un progetto in Senegal, anche se quel risultato ora avrà una ripercussione positiva anche su tutti quegli agricoltori di duro che, in Italia, soffrono a causa delle alte temperature che il grano subisce prima del raccolto. Quest’idea di lavorare global per ottenere un risultato local non credo sia ancora ben chiara a chi decide le priorità della Ricerca in Italia. Insomma, non saprei proprio dire cosa avrei potuto fare in Italia: forse anche qualcosa di meglio, anche se quasi sicuramente diverso.