La domanda cresce, ma la produzione di prodotto ittico è la più bassa degli ultimi 70 anni. E il mare è in sofferenza anche in Italia nonostante il calo dei consumi
La domanda di pesce cresce, sulla spinta dei consigli nutrizionali. Ma oggi le produzioni selvatiche nazionali sono ben poco sufficienti per rispondere ai livelli di consumo consigliati dagli esperti. Il dato emerge dal rapporto pubblicato su Marine Pollution Bulletin da ricercatori dell’Università di York. Come far incontrare le esigenze in termini di salute pubblica con l’ecologia del mare, oggi sovrasfruttato? È realmente aumentata la domanda o – e per quale motivo – i mari assicurano una minor quota di pesce e frutti di mare?
Dall’indagine emerge come nel Regno Unito, dove i consumi fanno segnare un trend in crescita da trent’anni a questa parte, i dati di pesca attuali sono i più bassi degli ultimi 70 anni. «Oggi le forniture di pesce nazionali sono molto al di sotto dei livelli di consumo raccomandati dalla Food Standards Agency e forniscono soltanto un quinto delle porzioni consigliate dai nutrizionisti: pari a due alla settimana», afferma Callum Roberts, docente di conservazione marina dell’ateneo britannico. Il deficit viene parzialmente mascherato con l’acquacoltura, per mezzo di cui la richiesta di pesce è ancora fronteggiabile. Ma gli allevamenti non possono essere l’unica soluzione al problema, per ragioni di sostenibilità che oggi emergono già quando si dibatte dei consumi di carne. I costi ambientali, con le dovute differenze, sono evidenti in tutto il mondo. In alcune zone paludose dell’Asia le mangrovie hanno lasciato il posto all’allevamento dei gamberetti, richiestissimi sul mercato.
Oggi l’Europa importa il 55 per cento del pesce che consuma. Peggio sono messi gli Stati Uniti, che nel 2013 hanno acquistato da altri Stati il 91% del pesce consumato. C’è dunque un grave scollamento tra le raccomandazioni alimentari e le capacità limitate degli stock ittici di pesce selvatico? «Se sia colpa delle indicazioni nutrizionali o meno, è difficile dirlo. Certo è che i tassi di sfruttamento attuali non sono affatto sostenibili», lanciano l’allarme gli autori del report, che sottolineano come le flessioni più preoccupanti riguardino i predatori che nuotano sotto costa e le specie che vivono in profondità, oggi raggiungibili con le moderne reti demersali. Sono lontani i boom degli anni ’50 e ’60, quando anche in ragione delle maggiori possibilità economiche il pesce faceva capolino in quasi tutte le case.
Le responsabilità di questa crisi conclamata – in realtà i dati relativi alla pesca non crescono già dal 1970 – non possono essere soltanto ricondotte ai consumi di pesce sulle nostre tavole. La perdita degli habitat naturali, l’inquinamento, il miglioramento delle tecniche di pesca e di stoccaggio e le malattie hanno assestato un altro duro colpo alla pesca selvatica. «Delle 148 milioni di tonnellate pescate nel 2011, 128 sono state destinate all’alimentazione umana», fa i conti Federica De Leo, ricercatore del dipartimento di scienze dell’economia dell’Università del Salento, che con due colleghi ha tracciato una stima dei consumi nell’area del Mediterraneo. Dai risultati, appena pubblicati su Sustainability, emerge come l’Italia viva una situazione opposta. I consumi, e di conseguenza le rese della pesca, sono in calo dal 2008: anno in cui è esplosa la crisi economica. E nel 2013 il consumo di prodotti ittici, per la prima volta dall’inizio del nuovo secolo, è stato inferiore a venti chili pro-capite. Nonostante ciò lo stato di salute delle acque non è in miglioramento. L’impatto dell’uomo sull’ecosistema marino risulta ancora massiccio. La conferma giunge anche dagli ultimi dati forniti dall’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare. Nel 2012 la produzione ittica nazionale ha segnato un’altra flessione (-5,7%). In più: la dinamica decrescente continua a interessare non solo la pesca marittima (le catture sono scese del 6,8% rispetto all’anno precedente), ma anche il prodotto allevato (-4,4%). Guai a dimenticare che le risorse del mare non sono infinite.
Twitter @fabioditodaro