Wise Society : Ultra fast fashion: i panni “sporchi” che deturpano l’ambiente

Ultra fast fashion: i panni “sporchi” che deturpano l’ambiente

di Paola Greco
11 Marzo 2024
SPECIALE : Moda tossica

Sostanze chimiche pericolose lungo tutta la filiera, enormi quantità di rifiuti tessili, sfruttamento della manodopera: il prezzo – altissimo – che paghiamo quando acquistiamo un capo che proveniente dall'industria dell'ultra fast fashion

Negli ultimi decenni, il settore moda ha subito una trasformazione radicale e senza precedenti con l’emergere del fenomeno del “Fast Fashion“, caratterizzato da una produzione rapida ed economicamente accessibile di capi di abbigliamento, secondo i dettami delle ultime tendenze. Un approccio sviluppato per soddisfare la crescente richiesta del capo sempre più all’ultima moda, senza grandi rinunce – se non quella della qualità – e che ha avuto la sua disastrosa evoluzione nell’Ultra Fast Fashion, un ulteriore salto verso una frenetica ricerca sempre più bulimica dell’ultimo modello.

Concept di Ultra Fast Fashion

Foto Shutterstock

Significato di ultra fast fashion

L’Ultra Fast Fashion si traduce in cicli di produzione che si susseguono ad un ritmo vertiginoso, dalla progettazione alla messa in vendita, fino al consumo, sia di capi di abbigliamento, sia di accessori, stimolando costantemente all’acquisto impulsivo e compulsivo.

In pratica se fino a qualche tempo fa la moda ci sembrava accessibile grazie a marchi come Zara o H&M (solo per citare i più noti), oggi è diventata “ultra low cost”, a causa di brand che ne hanno ridefinito il modo stesso in cui la concepiamo. Leader in questo tipo di approccio (ma non l’unico purtroppo) è il gigante cinese Shein che, con il suo e-commerce, immette sul mercato fino a 10 mila articoli al giorno.

L’Ultra Fast Fashion Industry

Shein ha un approccio molto aggressivo, che riunisce circa 6.000 fabbriche di abbigliamento cinesi, appoggiandosi ad un software di gestione interno che raccoglie feedback in tempo reale su quali siano gli articoli che si stanno vendendo di più e quali meno, in modo da aggiornare quello che sembra un catalogo infinito praticamente su richiesta. Il tutto condito con un’operazione pubblicitaria accattivante basato su una squadra di influencer provenienti da tutto il mondo. L’azienda cinese, infatti, bombarda la Generazione Z attraverso piattaforme come TikTok, con articoli dai prezzi stracciati, promossi e resi ancor più appetibili da micro e macro influencer, che molta presa hanno sulle giovani menti.

Impatto Ambientale

Mentre i brand competono per rimanere al passo con la frenesia delle ultime tendenze, la costante espansione di questo modello d’industria solleva domande importanti sulla sua sostenibilità a breve ma soprattutto a lungo termine. L’impatto ambientalmente insostenibile, infatti, è motivo di crescente preoccupazione, soprattutto a causa di politiche praticamente inesistenti. Attivisti e organizzazioni ambientaliste come Greenpeace stanno mettendo in luce l’impatto negativo dell’Ultra Fast Fashion Industry sull’ambiente, a partire dall’uso intensivo di materiali poco sostenibili, fino alla produzione di enormi quantità di rifiuti tessili, nonché all’esaurimento delle risorse.


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Scritta su vertrina

Foto di the blowup su Unsplash

Un’indagine di Greenpeace Germania

Ne citiamo una a titolo esemplificativo: secondo una indagine dello scorso anno di Greenpeace Germania, Shein ha un “modello di business basato su sostanze chimiche pericolose e distruzione ambientale”. Greenpeace ha acquistato 42 articoli da e-shop targati Shein in Austria, Germania, Italia, Spagna e Svizzera e 5 articoli da un pop-up store a Monaco, in Germania, per farli analizzare chimicamente in un laboratorio indipendente.

I risultati dimostrano l‘atteggiamento negligente del colosso cinese nei confronti dei rischi per l’ambiente e per la salute umana, associati all’uso di sostanze chimiche pericolose, tutto nell’interesse del profitto. Ancora peggio, Greenpeace ha scoperto che Shein sta infrangendo le normative ambientali dell’UE sulle
sostanze chimiche, mettendo a rischio la salute dei consumatori e dei lavoratori dei fornitori che realizzano i prodotti.

Sfruttamento di manodopera

Un’altra controversia riguarda proprio lo sfruttamento dei lavoratori nell’intera filiera di produzione. Le denunce da parte degli attivisti sono ormai all’ordine del giorno: gli impiegati degli stabilimenti lavorano 17-18 ore al giorno, su turni di 75 ore, con un solo giorno di riposo al mese, per uno stipendio da fame, di cui viene anche trattenuta la prima mensilità a titolo cauzionale. Inoltre ai lavoratori e alle lavoratrici è richiesta la produzione di 500 capi al giorno. Insomma si parla di violazione dei diritti umani e di sfruttamento del lavoro forzato.

Una responsabilità sociale

Ormai è davvero impossibile girarsi dall’altra parte, ignorando che dietro la produzione massiva e del costo così basso dei capi dell’ultra fast fashion c’è lo sfruttamento della manodopera e delle risorse. I consumatori, i brand e le organizzazioni devono collaborare per sviluppare approcci più responsabili e sostenibili verso la moda: solo così potremo mantenere uno stile di vita che non comprometta il nostro pianeta.

È tempo di riflettere su come possiamo bilanciare il nostro desiderio di stile con la necessità di proteggere l’ambiente: solo attraverso scelte consapevoli possiamo sperare di preservare il fascino della moda senza compromettere il nostro futuro.

Paola Greco

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