Una montagna di abiti usati, magliette, pantaloni, gonne che ha trasformato le dune del deserto in un’immensa discarica a cielo aperto. È quello che succede ad Atacama in Cile dove giacciono abbandonate ben 40.000 tonnellate di vestiti. Una realtà impressionante che un recente report dell’agenzia di stampa francese AFP ha rivelato al mondo. Ma cosa c’è dietro questo panorama da brividi? Tutto parte da vicinissimo, dai negozi di fast fashion delle nostre città dove compriamo abiti a poco prezzo. Capi d’abbigliamento pensati per essere portati solo una stagione, ma che, quando non ci piacciono più, finiscono per vivere per sempre (o quasi) sotto forma di rifiuto e diventano una parte non da poco dell’inquinamento ambientale.
Il viaggio degli abiti usati in giro per il mondo
Un lungo viaggio attraverso i continenti, un “giro del mondo” tutt’altro che piacevole che si consuma in pochi mesi e porta proprio ad Atacama. È quello che fanno gli abitini di fast fashion: quelli di scarsa qualità ma con un piccolo prezzo e un design accattivante e trendy. Gran parte della moda “usa e getta” viene prodotta in Cina, Bangladesh e Vietnam, spesso in condizione di grave disagio per i lavoratori che vengono a contatto con sostanze tossiche, e che sono costretti a confezionarli in ambienti angusti e con poche norme di sicurezza. Un’industria fra le più inquinanti quella della fast fashion, per l’uso di acqua, energia, utilizzo di materie prime.
Una volta pronti i capi arrivano in USA, Europa e ancora in Asia. Lì però questi abiti confezionati in tempi velocissimi vivono una vita altrettanto veloce che si chiude un pochi mesi: quello che appare sugli scaffali a settembre, e che portiamo durante l’inverno, in primavera è già un “bene di scarto”. Non a caso i capi di moda fast si indossano pochissime volte, non fanno in tempo a consumarsi davvero. È allora che partono verso il Cile, un paese che in America Latina ha il primato nel mercato di abiti usati. Destinazione ufficiale la zona franca del porto di Iquique dove vengono smistati e selezionati per essere rivenduti soprattutto nella capitale Santiago. Attenzione però: anche qui, nella seconda vita cilena degli abiti “fast” c’è il bello e il meno bello. Ci sono i capi ancora desiderabili e quelli che non hanno possibilità neanche sui mercati locali e neanche a un prezzo minimo, che non valgono nulla. E sono proprio questi ultimi che finiscono nel deserto di Atacama.
Atacama, la discarica della fast fashion
Quello che accade nel deserto di Atacama è ciò che si vede nel video di AFP News Agency: una grande, inquietante, massa di abiti buttati uno sull’altro, appallottolati, ridotti a rifiuti, fra cui frugano delle ragazzine alla ricerca di qualcosa di ancora mettibile. Ma secondo l’organizzazione di attivisti cilena Desierto Vestido, che monitora con grande coraggio la situazione, la realtà è ancora peggio di quello che appare a prima vista. I camion con la merce “indesiderata” arrivano tutti i giorni, poco o per nulla controllati, fin quando c’è luce, riversano il loro carico e vanno via. Ogni tanto la catasta di abiti prende fuoco in “roghi” sospetti che provvedono ad abbassarla, producendo però fumi tossici e quindi ancora inquinamento. Già perché gli abiti che si ammassano tristemente nel deserto sono in gran parte composti di fibre sintetiche, molte derivate dalla plastica. Potenzialmente possono rimanere quasi intatti per sempre: gli esperti hanno calcolato che un capo sintetico per degradarsi naturalmente può impiegare anche 200 anni!
La speranza dell’upcycling
Qualcosa però anche ad Atacama sta cambiando. E se la politica è forse poco sensibile la rinascita sta arrivando dalle aziende locali. Una è la EcoFibra di Franklin Zepeda che ha pensato di utilizzare proprio il poliestere e gli altri materiali sintetiche degli abiti buttati ad Atacama per produrre pannelli per l’isolamento termico e acustico: top e leggings diventano così un materiale perfetto per l’edilizia sostenibile!
Un’altra azienda virtuosa è quella dell’imprenditrice ciliena Rosario Hevia, la Ecocitex, che ha anche uno staff tutto al femminile di donne affiatate e piene di volontà. Qui vengono prodotte fibre tessili rigenerate, in modo assolutamente ecofriendly. In un processo di upcycling intelligente vengono rese riutilizzabili senza spreco di acqua e uso di ulteriori prodotti chimici. Il risultato? Gomitoli coloratissimi, cuscini, borsette, oggetti d’arredo davvero creativi. In questo modo almeno una parte dei rifiuti tessili cileni contribuisce all’economia circolare e anche a produrre ricchezza in zone in via di sviluppo.
Cosa possiamo fare per proteggere il deserto di Acatama
Evitare che il fast fashion diventi una fonte di inquinamento a migliaia di chilometri di distanza (ma con conseguenze dannose per l’intero pianeta) è qualcosa che ci riguarda più di quello che pensiamo. Possiamo tutti fare qualcosa in prima persona, cercando per esempio di adottare le regole divertenti e utili dell’armadio sostenibile che ci aiutano a sprecare meno senza sacrificare troppo l’amore per la moda.
Scegliamo gli abiti, magari in una maniera un po’ più razionale, senza la smania di comprare troppo e pensiamo che possono innanzitutto durare di più e poi, invece di essere buttati, potranno essere riparati, riciclati, trasformati con qualche trucco astuto e un po’di fantasia in un capo di abbigliamento diverso, solo nostro, unico…Perché non cominciare subito?
Lucia Fino