Il consumo di pesce d'allevamento supera nel mondo quello di carne. Una ragione in più per rendere più sostenibile l'acquacultura. Anche a partire dai nostri acquisti
Mangiamo sempre più pesce, e sempre più pesce allevato. Secondo un rapporto dell’Earth Policy Institute, un’associazione ambientalista americana, la produzione di pesci d’allevamento è in deciso aumento e lo scorso anno ha raggiunto la quota record di 66 milioni di tonnellate. E per la prima volta, nel mondo, viene prodotto più pesce d’allevamento che carne bovina, ferma a 63 milioni di tonnellate.
Allevamenti di pesce e sostenibilità
Il pesce viene considerato più salutare della carne rossa e, visto che l’impatto degli allevamenti intensivi di bovini (e non solo) è devastante, questo basta affinché i consumi ittici crescano in modo esponenziale. Ma dato che anche i mari sono già da tempo soggetti a un eccessivo sfruttamento, saranno gli allevamenti acquatici a dover sostenere tale aumento della domanda. Se la tendenza rimarrà la stessa l’Ocse – l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – sostiene che entro il 2015 sul pianeta si consumerà più pesce allevato che pescato. Con questi numeri occorrerà dunque ridurre radicalmente l’impatto ambientale delle produzioni di acquacoltura, ancora lontane dal poter essere definite realmente sostenibili.
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L’alimentazione del pesce allevato non è sostenibile
Uno dei problemi principali è legato all’alimentazione di molte delle specie che vengono allevate, in particolare quelle carnivore: pesci predatori che per nutrirsi richiedono a loro volta grandi quantità di pesce. Il salmone, uno dei pesci che più comunemente si vedono sulle nostre tavole, è una di queste specie. In media, per un chilo di prodotto finale destinato alla vendita, occorrono 5 chilogrammi di pesci trasformati in mangime. La Norvegia, il maggior produttore mondiale, importa più olio di pesce per mangimi di qualsiasi altro paese al mondo. La Cina, che è invece leader mondiale nella produzione di gamberetti, utilizza il 30 percento dei mangimi che circolano nel mondo, e anche questo è un problema, perché le farine sono ottenute da pesci pescati dall’altra parte del mondo. Così, all’energia utilizzata per il processo di trasformazione, si aggiunge quella necessaria a trasporto e stoccaggio.
Le specie di pesce a maggior impatto ambientale
Come evidenzia Quelli che non abboccano, un utilissimo vademecum per l’acquisto consapevole di pesce pubblicato sul sito di Slow Food, salmoni e gamberetti sono proprio tra le specie con il maggior impatto ambientale, e perciò andrebbero limitate nell’acquisto. Un allevamento di 200 mila salmoni produce una quantità di scorie pari a una città di 60 mila abitanti. I gamberetti, invece, sono la causa principale della distruzione delle foreste di mangrovie. Tra le specie d’allevamento che hanno minor impatto ambientale, cozze e vongole sono un ottimo esempio di acquacoltura sostenibile. In Italia ci sono poi le carpe, perlopiù erbivore, e i cefali, allevati in modo estensivo negli ambienti salmastri come stagni, paludi e bacini.
Acquacoltura sostenibile: è possibile?
Nel nostro Paese i prodotti dell’acquacoltura soddisfano il 30 percento circa del consumo di pesce. Una quota composta per il 70 percento da bivalvi e in parte minore da trote, spigole e orate. Un buon punto di partenza dal punto di vista dell’impatto ambientale, visto che l’Earth Policy Institute auspica uno spostamento sensibile dell’equilibrio a favore di pesci allevati con alimenti proteici di origine non-animale: «E’ evidente l’urgenza di rendere l’acquacoltura sostenibile. La popolazione mondiale cresce di circa 80 milioni di persone all’anno, in un ambiente naturale limitato. Per vivere in questi limiti occorre ripensare le pratiche di produzione di carne e pesce per rispettare l’ecologia. E ancor più importante è che gli esseri umani – che vivono in cima alla catena alimentare – mangino meno carne, latte, uova e pesce».