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Matteo Aloe: «La mia pizza artigianale per Expo 2015»

di Mariella Caruso
23 Febbraio 2015

Il patron di Berberé-Alce Nero avrà il suo spazio nel Padiglione della Biodiversità. Intanto ci spiega perché non tutte le pizze sono uguali e come scegliere consapevolmente

Matteo Aloe non è un maestro pizzaiolo, ma uno chef con stage formativo al Noma di René Redzepi. Nei tre ristoranti a marchio Berberè fondati col fratello, dal primo nato a Castel Maggiore nel 2010 all’ultimo inaugurato a Firenze nel 2014 passando per il locale bolognese realizzato in collaborazione con Alce Nero, però, a regnare sovrana è la pizza rigorosamente artigianale e a lievitazione naturale con grande attenzione al mondo vegetariano. Ospite della sezione Identità naturali di Identità Golose 2015, Aloe ha raccontato insieme con il maestro pizzaiolo Massimo Giulina, il suo modo di intendere la pizza e di gestire un’insegna naturale.

Matteo Aloe

Matteo Aloe

La pizza è diventata un alimento poco digeribile, come mai?

«È soprattutto una questione di lievitazione. Quando abbiamo aperto il nostro primo ristorante abbiamo puntato sulla pizza perché non riuscivamo a capire il perché fosse diventata junk food in tutto il mondo. Eppure gli ingredienti sono acqua e farina. Così abbiamo cominciato a fare una ricerca sugli impasti trovando nella lievitazione naturale e nei tempi di fermentazione uno dei modi per aumentarne la digeribilità. Infine abbiamo messo grande attenzione ai condimenti. È importante che la pizza venga completata con ingredienti di qualità: dei buoni pomodoro e mozzarella, un ottimo prosciutto, verdure fresche di stagione. Non è un caso che la pizza Quattro stagioni da noi non esista. Se è tempo di cavolo nero, la pizza si fa col cavolo… Non è che noi ci vestiamo col cappotto sul costume da bagno. E poi è anche una questione di sostenibilità ambientale».

Come scegliete le farine per la pizza?

«Lo facciamo con grande attenzione: non ne utilizziamo di raffinate, partiamo dalla tipo 1 in su. Questo perché la farina raffinata è priva degli elementi nutritivi, a rimanere sono solo amidi e zuccheri, ma non enzimi e vitamine che sono nelle parti esterne. Inoltre usiamo farine macinate a pietra, perché la macinatura a cilindro surriscalda il prodotto che così viene impoverito nutrizionalmente. Adesso stiamo lavorando con Alce Nero per l’utilizzo di sole farine italiane regionali come la Senatore Cappelli pugliese o la Gentile calabrese. Poi ci sono le farine di farro, segale e kamut».

Pizza capperi di salinaCosa comporta l’attenzione alla lievitazione?

«L’artigianalità della pizza che è il valore aggiunto in ognuno dei nostri punti vendita che speriamo di arricchire entro l’anno con un quarto locale a Milano. Per le pizze utilizziamo soltanto lievito madre che rinfreschiamo ogni giorno e la lievitazione dura almeno 24 ore a una temperatura costante di 26°. Nella maggior parte delle pizzerie per economicizzare il prodotto e poter offrire prezzi da fast food, invece, si sceglie spesso di accorciare questi tempi arrivando soltanto un’ora prima in cucina, usando tanto lievito per l’impasto e bloccando il processo in frigo per utilizzarlo al bisogno. Questo rende indigeribile la pizza per l’alta carica di lievito ancora presente al momento del consumo».

Come si può scegliere una buona pizza?

«Intanto bisogna diffidare di un prezzo troppo basso tenendo presente le variabili che incidono sul prezzo: una margherita a 4 euro va bene al Sud dove gli affitti sono inferiori e le mozzarelle sono locali, ma non a Milano. Poi occorre chiedere il tipo di lievitazione e quali sono le farine utilizzate».

Cosa hai imparato dallo stage da Redzepi?

«Che per fare piatti importanti non c’è bisogno del fois gras e che gli ingredienti di stagione sono importanti. Al Noma almeno 15 portate su 22 erano vegetariane e realizzate con radici, bacche, erbe selvatiche e insetti che noi non siamo abituati a mangiare. La cosa che mi ha stupito di più, però,  è stato trovare al mercato di Copenhagen broccoli biologici pugliesi che io non riesco a farmi consegnare nei miei locali».

Ti sei dato una spiegazione a questo?

«Credo che la domanda interna in Italia sia ancora troppo bassa perché manca la consapevolezza del consumatore. C’è troppa confusione».

Pizza crudo L’Expo 2015 può aiutare ad aumentare la consapevolezza?

«Nel padiglione della Biodiversità noi gestiremo l’insegna Alce Nero-Berberè. All’inizio ero spaventato, poi ho pensato che si tratta di una buona occasione di mettere in tavola i propri pensieri sul futuro. Un Expo in Italia sui temi dell’alimentazione è un’opportunità che non possiamo perdere: futuro deve essere un cibo salubre, sostenibile e accessibile a tutti. Ancora nel nostro paese tendiamo a stereotipare il biologico, il vegetariano e il vegano come fossero una religione. Il bio e la salvaguardia delle nostre tradizioni non è roba per ricchi. Ci devono salvare i contadini, le tecniche agricole come sovescio e rotazione».

 

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