La richiesta dei consumatori sale, ma in Italia le coltivazioni biologiche diminuiscono. Così molti prodotti vengono importati. Invece, secondo il neo presidente AIAB, bisogna tornare a produrre sulla Penisola. Con una nuova sfida: abbassare i costi senza perdere la qualità
Alessandro Triantafyllidis, milanese, agronomo, 45 anni, è il nuovo presidente nazionale AIAB (Associazione italiana per l’Agricoltura Biologica) che succede ad Andrea Ferrante. È stato eletto ai primi di dicembre al congresso che si è tenuto a Milano, dal titolo “Il Bio che cambia”.
Ha una lunga esperienza nel settore, anche personale. Infatti tuttora conduce un’attività agrituristica biologica a Varese Ligure (La Spezia). È fermamente convinto che questo tipo di produzione abbia bisogno di un rilancio per tornare a essere uno dei fiori all’occhiello del Paese. E si batte perché le aziende escano dalla logica dell’individualismo e trovino forme di aggregazione utili a essere più competitive.
Che obiettivi si è dato come neo-presidente Aiab?
Indubbiamente quello di rafforzare la diffusione del Bio in Italia, anche se non sarà facile data la crisi che attraversiamo e considerato che, rispetto agli anni 2000, sono diminuiti sia gli ettari di terreni dedicati al biologico sia il numero di produttori. Ciò a fronte di un aumento della domanda. Quindi bisognerà cambiare le politiche: non a caso il titolo del nostro congresso di quest’anno è “Il Bio che cambia”. Dobbiamo cambiare per tornare a crescere perché la politica agricola comune, così com’è, non ci permette di crescere oltre. Servono nuovi orizzonti, il che non significa soltanto certificare le aziende agricole, ma avere una conversione dei territori e costituire dei bio-distretti uscendo dalla logica della singola realtà. Perché ci troviamo in una situazione in cui i cittadini chiedono il biologico, ma le aziende diminuiscono, tanto che eravamo i primi produttori in Europa e ora non lo siamo più, anche se restiamo molto ben posizionati, in cima alla classifica insieme alla Spagna.
Quando un prodotto si può definire davvero bio?
Sono più di vent’anni che abbiamo un regolamento comunitario. Dal 2007 poi è obbligatorio riportare un’etichetta, un logo verde a forma di foglia, con le dodici stelle dell’Unione Europea che significa che quel prodotto è certificato da organismi autorizzati dal ministero e che l’azienda è controllata una volta all’anno. Inoltre nell’etichetta vi è una tracciabilità per cui si può sapere se quel prodotto è italiano, europeo o extraeuropeo. Sulla garanzia poi, dato che spesso ci si chiede se il bio sia anche sicuro, sottolineo che per avere quel bollino l’impresa viene certificata e controllata per legge almeno una volta all’anno. In Italia abbiamo circa 47 mila aziende agricole biologiche e i controlli sono 60 mila, quindi 1.3 controlli ad azienda. Infine, a questi vanno sommati gli accertamenti delle Regioni.
Meglio comprare alimenti bio della grande distribuzione o affidarsi a piccoli marchi?
Sono certificati biologici anche quelli venduti dalla grande distribuzione. Il problema è che perdono in personalità perché quello che interessa è mettere in evidenza il marchio della catena. Sicuramente ciò che bisogna guardare, e questo è possibile come dicevo prima, è la tracciabilità, quindi andare a vedere se il prodotto è italiano oppure no. Perché a volte gli articoli bio che si trovano nei supermercati, essendo a costi molto concorrenziali, arrivano dall’estero. Sta aumentando incredibilmente, infatti, l’importazione dei prodotti biologici dall’estero, soprattutto dal Nord Africa, dalla Turchia, dall’Ucraina e dal Kazakistan. Sono sempre controllati e certificati, ma non italiani.
Cosa determina il successo di un’impresa Bio?
Be’ intanto come viene condotta l’azienda. Anche se tutte producono all’interno di regole e con il bollino, alcune sostituiscono semplicemente i pesticidi con i prodotti ammessi dall’agricoltura biologica, quindi naturali o minerali, altre invece lavorano con grande impegno anche su quello che poi è l’elemento centrale: la fertilità del suolo. Quando si cura questo aspetto, l’azienda va avanti per anni, perché si riescono a ottenere livelli di produzione simili a chi usa pesticidi. Poi però bisogna vendere per avere successo. Le aziende agricole bio che hanno sviluppato metodi di commercio alternativi, con la vendita diretta, stanno funzionando bene. Chi invece è nei canali della grande distribuzione riscontra gli stessi problemi delle imprese agricole convenzionali.
Noi italiani quanto amiamo questi prodotti rispetto agli altri consumatori europei?
Una recente indagine di mercato ci dice che più della metà della popolazione ha, almeno saltuariamente, scelto un articolo biologico. Mentre la percentuale di chi li compra abitualmente è più bassa, in Italia non siamo ai primi posti, ci attestiamo intorno al 2 percento del totale dei consumi. Ci superano Germania, Danimarca, Inghilterra, Francia, Austria. Un aspetto però che da noi è molto interessante è la ristorazione collettiva nelle scuole, lì stiamo facendo veramente passi da gigante. Sono 800 i comuni che hanno una mensa con prodotti bio. Ad esempio, Roma ne acquista per 50 milioni di euro all’anno ed è il principale compratore italiano. Poi anche Genova, Firenze, Venezia e tanti altri comuni più piccoli. Un altro bel caso che mi piace ricordare è quello dell’ospedale di Asti.
Per uscire dalla “nicchia”, avete diversificato le forme di approccio al pubblico?
Si, da una parte con l’ingresso nei supermercati e dall’altra con metodi alternativi di distribuzione che stanno crescendo molto, come i GAS (Gruppi di Acquisto Solidali), la vendita diretta, i mercatini e gli acquisti online.
E sul fronte dei prezzi, è possibile contenerli per evitare che il bio sia consumato soltanto da un’elite?
Questo punto è fondamentale per Aiab, il biologico non deve essere per pochi ma per tutte le tasche. E ciò si sta realizzando con le forme alternative di mercato. Bisogna migliorare la logistica e la capacità dei produttori di organizzarsi e di stare insieme, quindi creare delle piattaforme logistiche locali. A Roma c’è e funziona molto bene lo Spazio Bio (tel. 06/57289957) . Recepisce i prodotti di tredici soci, che sono cooperative, e che a loro volta associano altri produttori. Hanno un punto vendita al pubblico e poi fungono da piattaforma per i GAS e per altri negozi.
Infine, pensando all’ambiente, questo tipo di agricoltura può diminuire l’emissione di gas nocivi all’ambiente rispetto a quella convenzionale?
Si perché si basa sulla fertilità del suolo, organica, quindi sulla quantità di humus presente nel terreno e l’humus non è altro che CO2, carbonio. Di conseguenza più è alto il tenore di sostanza organica nel suolo, minore è quella presente nell’aria. Inoltre la produzione biologica fa meno uso di acqua e non ricorre a fertilizzanti e pesticidi che si ottengono dall’utilizzo di energia e di petrolio. Detto questo però, anche noi dobbiamo migliorare ancora molto…