La crisi climatica compromette la produzione di ciò che mangiamo e beviamo: dallo zucchero al caffè, dalla birra al riso. E innesca la climateflation
Ci sono conseguenze dei cambiamenti climatici che ormai abbiamo imparato a distinguere chiaramente. Quando boccheggiamo per le ondate di caldo estivo, o quando ci impressioniamo guardando i video di inondazioni e uragani, sappiamo che è il riscaldamento globale a rendere gli eventi meteo estremi più intensi e frequenti. Altre volte, invece, il legame non è così scontato. È piuttosto improbabile che ci venga in mente il clima quando confrontiamo i prezzi al supermercato, per esempio. Eppure, la crisi climatica incide anche sulla qualità, sulla quantità e – quindi – sul prezzo del cibo che mangiamo. In tanti modi, comprovati.
Quali alimenti subiscono l’impatto della crisi climatica
Le conseguenze della crisi climatica si fannos sentire sul paniere dei prezzi degli alimenti di largo consumo, ma anche sulla loro disponibilità in Italia e nel mondo. Qui di seguito alcuni esempi relativi al fenomeno.
Zucchero
Brutte notizie per chi ha sempre uno spazio per il dessert. Nel corso del 2023, il prezzo dello zuccheroa livello globale ha raggiunto picchi che non toccava dal 2011, l’anno della crisi alimentare innescata dalla Primavera araba. Per essere precisi, a dicembre le quotazioni hanno segnato un lieve calo, dovuto soprattutto alla buona annata produttiva del primo esportatore, il Brasile. Ma l’indice della Fao per l’intera annata è comunque di 145, con un balzo in avanti di oltre trenta punti sul 2022.
Questo accade perché India e Thailandia, anch’esse sul podio dei principali esportatori, hanno vissuto una grave siccità. Le coltivazioni di canna da zucchero ne hanno risentito e l’impennata dei prezzi è la logica conseguenza. Tant’è che Mondelēz, il colosso che produce (tra le altre cose) Oreo e Toblerone, ha già messo le mani avanti: nel 2024 dovrà inevitabilmente alzare i prezzi.
Caffè
Non c’è pace nemmeno per un altro chiodo fisso di noi italiani, il caffè. Uno studio pubblicato dalla rivista scientifica Plos One ha identificato dodici conseguenze del riscaldamento globale (come le variazioni nella temperatura, nelle precipitazioni e nel livello di umidità) nelle dodici principali regioni di produzione del caffè, tra il 1980 e il 2020. Scoprendo che, in ciascuna di esse, è aumentata la frequenza delle condizioni non ottimali per la crescita della pianta. In particolare, le temperature sono troppo alte. I ricercatori hanno anche isolato gli anni più problematici: cinque su sei sono accaduti nell’ultimo decennio considerato, tra il 2010 e il 2020.
Birra
Ma c’è una bevanda che è ancora più popolare del caffè, battuta solo – a livello globale – da acqua e tè. È la birra. E nemmeno lei è immune alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Stando a uno studio pubblicato su Nature Communications, se gli agricoltori non riusciranno ad adattare le coltivazioni al clima più caldo e secco, le rese del luppolo subiranno un calo compreso tra il 4 e il 18% entro il 2050. Il suo contenuto di acidi alfa, quelli che gli conferiscono il suo caratteristico sapore amaro, vivrà un crollo ancora più netto: tra il 20 e il 31%. Insomma, gli appassionati dovranno fare l’abitudine a un generale peggioramento qualitativo della birra e a un aumento del suo prezzo.
Riso
Quando si parla di riso, poi, la questione si fa seria. Perché non è soltanto a un piacere per il palato, ma anche e soprattutto la base dell’alimentazione per miliardi di persone. Proprio per questo, già da mezzo secolo sono stati adottati metodi intensivi di produzione che fanno leva su semi ibridi, fertilizzanti chimici e un notevole consumo d’acqua. Oggi questa forzatura dei ritmi della natura mostra tutti i suoi limiti, sotto forma di inquinamento, biodiversità impoverita, risorse idriche sacrificate. Non solo: le coltivazioni di riso contribuiscono al riscaldamento globale (soprattutto per le loro emissioni di metano) ma al tempo stesso lo subiscono. Qualche esempio? In Cina le piogge estreme hanno ridotto le rese del riso nell’arco degli ultimi vent’anni; in Pakistan i raccolti sono andati distrutti per via del caldo e delle tempeste; in California invece c’è il problema opposto, perché la siccità ha costretto alcuni agricoltori a lasciare incolti i campi.
Cosa significa climateflation
Per la legge della domanda e dell’offerta, se un bene è scarso costa di più. Ed è quello che sta capitando, e che capiterà, a questi e altri alimenti, tant’è che si inizia a parlare di climateflation, inflazione climatica. La Banca Centrale Europea ha pubblicato uno studio in cui calcola che, in assenza di poderose misure di adattamento, il riscaldamento globale farà aumentare l’inflazione alimentare annua di 0,92-3,23 punti percentuali. Più modesto, ma comunque tangibile, l’impatto sull’inflazione complessiva: si parla di 0,32-1,18 punti percentuali all’anno. Tutto questo, basandosi sui modelli climatici per il 2035.
Le dinamiche del clima, per giunta, spesso sono tutt’altro che graduali: se dunque un’inondazione o un’ondata di siccità distruggono un raccolto, le oscillazioni dei prezzi di quella materia prima agricola sono improvvise e vertiginose. Qui non stiamo parlando soltanto di dover sborsare qualche centesimo in più per un pacchetto di Oreo, ma di intere fasce della popolazione (soprattutto nei Paesi in via di sviluppo) che da un mese all’altro non riescono più a sfamarsi. Un’ottima motivazione per prendere sul serio la crisi climatica. E agire, prima che le conseguenze siano troppo gravi.
Valentina Neri