Dopo anni di attesa, l’Italia ha un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc). Vediamo meglio di cosa si tratta, quali sono i suoi punti di forza e in cosa è ancora migliorabile.
Dopo anni di attesa e rinvii, conditi dalle inevitabili polemiche, l’Italia ha un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc). Cioè un quadro di indirizzo nazionale per mettere in pratica azioni che riducano i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, migliorare la capacità di adattamento dei sistemi naturali e socio-economici, ma anche cogliere le eventuali opportunità che nasceranno dalle nuove condizioni climatiche. Vediamo più da vicino in cosa consiste questo documento, perché è una priorità e perché c’è chi lo taccia di avere parecchi punti deboli.
Perché l’Italia deve lavorare sull’adattamento
378 eventi meteo estremi nell’arco di un anno, con 31 vittime. Sei miliardi di euro di ripercussioni negative all’agricoltura per via del maltempo, secondo Coldiretti. Vaste aree dell’Emilia-Romagna sommerse di acqua e fango per giorni, con perdite economiche stimate in 8,85 miliardi di euro. Cinquemila alberi distrutti o gravemente compromessi per il nubifragio notturno che si è abbattuto su Milano a fine luglio. Questa è soltanto una ridotta selezione dei gravissimi danni che il nostro Paese ha subito a causa della crisi climatica, solo nell’arco del 2023.
Come reagire? Da un lato, facendo tutto il possibile per emettere sempre meno CO2 in atmosfera e, quindi, contribuire sempre meno al riscaldamento globale, la causa numero uno di tutto questo (si parla quindi di mitigazione). Dall’altro lato, adattando il territorio, le infrastrutture, l’agricoltura, gli edifici – in una parola, gli ecosistemi e le attività umane che ospitano – per renderli resilienti. Per convivere con un clima che è inevitabilmente cambiato, e continuerà a cambiare, limitando – per quanto possibile – i danni.
Cos’è il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici
Non è un caso se i fenomeni verificatisi in Italia sono così intensi e frequenti. La nostra Penisola, infatti, si trova nel bel mezzo del cosiddetto hotspot mediterraneo, un’area particolarmente vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici. Oltretutto, sappiamo bene quanto buona parte del territorio sia a forte rischio idrogeologico.
Di fronte a una situazione del genere, non si può sperare che ogni amministrazione locale – o, peggio ancora, ogni cittadino – si attivi per conto suo. Per pianificare azioni che siano all’altezza di un fenomeno così trasversale, servono innanzitutto conoscenze attendibili e condivise; poi, un’organizzazione ferrea; infine, una governance multilivello e multisettoriale. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici serve proprio a questo.
Il lungo iter per l’approvazione del Pnacc
Insomma, il Pnacc ci serve. E anche con una certa urgenza: ne va della nostra sicurezza e dei nostri soldi. Eppure, l’iter che ha portato alla sua approvazione è stato interminabile. Sono passati quasi dieci anni dal 2015, quando è stata adottata la Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. A cui, però, mancava la parte operativa.
È stato poi il governo di Paolo Gentiloni, nel 2018, a pubblicare la prima bozza di piano. Bozza che, tuttavia, non è stata adottata da nessuno dei tre governi successivi: né i due (con coalizioni differenti) di Giuseppe Conte, né quello di unità nazionale guidato da Mario Draghi. Soltanto a fine 2022 Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica del governo guidato da Giorgia Meloni, ha pubblicato la bozza aggiornata del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, avviando la fase di consultazione. Il 21 dicembre 2023 è arrivata l’approvazione definitiva.
Come è strutturato il Pnacc
Il documento conta un centinaio di pagine e si articola su sei sezioni:
- il quadro giuridico di riferimento;
- il quadro climatico nazionale;
- impatti dei cambiamenti climatici in Italia e vulnerabilità settoriali;
- misure e azioni del Pnacc;
- finanziare l’adattamento ai cambiamenti climatici;
- governance dell’adattamento.
In più ci sono i quattro allegati: due documenti di indirizzo per la definizione di strategie e piani regionali e locali, un documento che fa il punto sulle conoscenze attuali sui cambiamenti climatici in Italia e, ultimo ma non ultimo, un “quadro organico di possibili opzioni di adattamento”.
La differenza tra azioni soft, green e gray
Concentriamoci proprio sulla parte inevitabilmente più interessante, quella delle azioni. In tutto sono 361 – alcune pensate su scala nazionale, altre su scala regionale – e riguardano svariati settori: acquacoltura, agricoltura, energia, turismo, foreste, dissesto idrogeologico, desertificazione, ecosistemi acquatici e terrestri, zone costiere, industrie, insediamenti urbani, patrimonio culturale, risorse idriche, pesca, salute e trasporti. Per ciascuna di esse, oltre a descrivere in cosa consiste, quali sono gli enti di riferimento, qual è il suo obiettivo e come valutarne l’esito, c’è anche una classificazione: soft, green e gray.
Ma cosa significa? Potremmo tradurre l’aggettivo soft come propedeutico, perché contraddistingue le varie iniziative di comunicazione, governance, partecipazione. Insomma, non si agisce direttamente, ma si creano le condizioni per agire. Per scendere più nel concreto, bisogna passare alle azioni green e grey. Entrambe prevedono interventi veri e propri sul territorio, ma le prime sono nature-based (sfruttano cioè le potenzialità della natura), le seconde prevedono interventi su impianti e infrastrutture.
Cosa manca nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici
Qui sta la prima grande critica che è stata rivolta al Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici: su 361 azioni, ben 250 – cioè la netta maggioranza – sono soft. Ciò significa che sono utili per creare consapevolezza e orientare l’azione ma, di per sé, non corrispondono a interventi reali. Tutto questo in un Paese che di interventi reali ne ha un gran bisogno.
L’altro capitolo che appare deludente è quello sui finanziamenti, che occupa a malapena quattro pagine su 106. Perché deludente? Perché si limita a citare i programmi europei, nazionali e regionali esistenti a cui fare riferimento, ma non prevede di istituire un capitolo di spesa ad hoc. In pratica, il Pnacc sistematizza le cose da fare, non incrementa le risorse per farle.
Cosa ne pensano le organizzazioni ambientaliste
Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), parla del Pnacc come di “uno strumento fondamentale”, ma pungola le istituzioni a fare molto di più.
“Per dare immediata e piena attuazione al Piano occorre che il governo crei in tempi brevissimi la struttura di governance prevista dallo stesso Piano, così da trasformare gli obiettivi stabiliti in azioni concrete”,
“Inoltre, va ricordato che il Pnacc non beneficia di specifiche risorse finanziarie: per questo, bisogna urgentemente valutare se e come gli investimenti previsti dal Pnrr o quelli finanziati da altri strumenti, come i fondi europei e nazionali per la coesione, possano contribuire alla realizzazione del Piano”.
Anche per Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, il nodo è quello delle risorse economiche, “altrimenti il rischio è che il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici resti solo sulla carta”, spiega. Ricordando come, per completare il quadro dell’azione per il clima, servano anche altre misure: un Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) più ambizioso, una legge sullo stop al consumo di suolo, l’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici.
Ancora più dura la posizione del WWF Italia, per cui
“il Piano appena pubblicato […] è analogo a quello precedente e ha gli stessi limiti, mancanza di decisioni chiare e coraggiose, ottima identificazione sintetica dei possibili impatti e problemi, scarsa e deficitaria individuazione delle cose da fare e di come finanziarle”.
Insomma, è un “primo passo”, ma niente di più.
Valentina Neri