Wise Society : Case Rom. La parola d’ordine è collaborare

Case Rom. La parola d’ordine è collaborare

di di Olivia Rabbi
23 Novembre 2010

Dalla roulotte all'abitazione, per chiudere definitivamente i campi nomadi. Senza ruspe o sgomberi forzati, ma privilegiando invece la partecipazione dei futuri abitanti al progetto di costruzione. Come è stato fatto a Padova e a Settimo Torinese. Con risultati confortanti

La casa? La autocostruiamo insieme


La logica perversa campo nomadi-sgomberi forzati è una strada senza uscita che chiude il percorso di costruzione dell’integrazione di una città . Serve, invece, un nuovo approccio alla progettazione, partecipata e aperta alle istanze delle comunità coinvolte. E gli esempi positivi, in giro per l’Italia non mancano.

 

La parola risolutiva? Prima di integrazione è collaborazione, cioè la capacità di ascoltare le esigenze delle comunità destinatarie e saperle trasferire in un progetto rivolto alla città. Aprire l’accesso alle case popolari alle comunità nomadi stanziali, come Rom e Sinti, promuovere l’organizzazione di microinsediamenti attrezzati con forme di autogestione responsabile del territorio, oppure percorsi di autocostruzione delle abitazioni, sono tre fra le strade possibili da percorrere, e partono tutte da un concetto-chiave: abbattere lo stereotipo che si riassume nel binomio nomadi-roulotte, promuovendo nel contempo la mixitè sociale che elimina l’emarginazione.

 

A Padova convivenza riuscita

 

A Padova il “Villaggio della Speranza”, 3 palazzine a due piani da 4 appartamenti ciascuna, accoglie dallo scorso febbraio le 32 persone della comunità Sinti, composta da diversi nuclei famigliari legati da una stretta parentela. Che per trovare una soluzione diversa dalla roulotte del campo hanno imparato il mestiere di muratori e partecipato all’autocostruzione del proprio alloggio. Il progetto ha visto lavorare a quattro mani Comune e associazione Opera Nomadi di Padova, che ha coordinato l’iniziativa con il sostegno dei fondi stanziati per progetti di inclusione sociale delle popolazioni Rom e Sinti dal ministero della Solidarietà Sociale, ora del Welfare. L’area sulla quale sorge l’insediamento, e le case stesse, restano di proprietà del Comune di Padova; gli abitanti pagano utenze e affitto mensile. Ogni alloggio misura 45 metri quadrati, è dotato di zona soggiorno-cottura, due camere da letto e un bagno, ha un piccolo giardino e posti auto coperti. In un’area urbana lungo corso Australia che ha evitato la marginalizzazione della comunità Sinti e ha permesso di superare la diffidenza (e le proteste iniziali) suscitate dall’iniziativa. Un piccolo esempio di convivenza riuscita che ora l’associazione sta portando in giro per l’Italia come modello. «Da anni i Sinti avevano espresso la necessità e la volontà di migliorare le proprie condizioni abitative per avere la possibilità di un’integrazione sociale concreta», spiega Renata Paolucci, presidente di Opera Nomadi Padova. «L’autocostruzione delle abitazioni è stata una bella esperienza che ha portato gli abitanti all’abbandono del campo-ghetto e oggi rende più facile agli adulti trovare un lavoro». Un altro gruppo di famiglie Rom di origine serba ha chiesto e ottenuto l’assegnazione degli alloggi popolari dell’Ater, l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale. Le ultime famiglie provenienti dai due campi nomadi esistenti a Padova guarda a una terza soluzione, l’autocostruzione di microaree attrezzate per la stanzialità. «Il rapporto con il Comune è stato fondamentale: abbiamo lavorato tutti con molto dialogo e impegno», aggiunge Paolucci.

 

L’importante è partecipare insieme ai progetti

 

Non esiste la casa “dei Rom”, ma la casa costruita “con i Rom”. Questa la scuola di pensiero della cooperativa di progettazione Architettura delle convivenze, con sede a Milano. La prima strategia si chiama partecipazione. «Svolgiamo un ruolo di mediazione all’interno di un progetto partecipato», dice Simona Riboni, vicepresidente, «nel quale non esistono orientamenti a priori ma partiamo volta per volta dallo studio delle modalità abitative della cultura cui ci riferiamo, coinvolgendo le istituzioni e i futuri abitanti». Chiudere un campo nomadi diventa motore di trasformazione per la città, e il cantiere di un nuovo insediamento spazio di conoscenza reciproca che abbatte le barriere. «Nel cantiere “aperto” lavorano insieme gli assegnatari designati, gli assessori comunali coinvolti, i volontari, ed è uno spazio accessibile anche ai futuri vicini di casa delle comunità», continua Riboni, «e in più facilita la conoscenza fra vecchi e nuovi abitanti, mettendoli a confronto» Nel curriculum della cooperativa spicca “Il Dado”, progetto sviluppato a Settimo Torinese (TO) con la collaborazione del Comune e della cooperativa sociale Terra del Fuoco: da una vecchia palestra costruita negli anni Settanta, riutilizzata dal 2003 come luogo dell’ospitalità per individui e famiglie con disagio sociale, si è arrivati ora all’edificio autorecuperato: adibito a residenza temporanea di otto famiglie Rom e a foresteria per studenti e lavoratori europei che partecipano al progetto Flare di contrasto alla criminalità organizzata. “Il Dado” si apre verso la città con l’installazione artistico-scientifica La casa dei cavalieri erranti dell’artista Paolo Ferrari. Organizzato su due piani, ha il suo cuore nella grande terrazza: luogo della memoria dello spazio comune tipico della cultura gitana, accoglie i momenti conviviali e gli eventi promossi dagli abitanti o da realtà associative esterne. «Tre ragazzi della comunità Rom avevano seguito un corso di formazione per elettricisti e hanno lavorato in cantiere», aggiunge Riboni, «mentre altre due persone sono state assunte dalla cooperativa sociale. Costruiamo una casa per costruire una rete e dare inizio a un processo nel quale una persona possa sviluppare i propri percorsi personali».

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