L’interesse dell’industria e della ricerca si concentra sulle enormi potenzialità di queste tecnologie, sostitute green dei fossili
Bioplastiche dai funghi e dai cardi, biocarburanti dalla cellulosa, prodotti chimici green da zuccheri e così via.La miniera d’oro per l’economia e per l’ambiente è rappresentata dalla bioeconomia e in particolare dalle biotecnologie ambientali.
Se n’è parlato al convegno dedicato, a cura di Greenplanner, in occasione di Myplant & Garden, cui è intervenuto Davide Ederle, presidente dell’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani. «Le biotecnologie ambientali esistono da tantissimo tempo. Oggi però è cambiato il paradigma. Queste tecnologie infatti sono sempre più legate all’industria, chimica in particolare, e rappresentano la risposta alle sfide ambientali ed economiche legate ai cambiamenti climatici oltre alla necessità di affrancarsi dalle fonti fossili. Le biotecnologie ambientali mostrano sempre più la loro faccia industriale».
Biotecnologie ed economia circolare: ecco la bioeconomia
Nate in particolare con l’idea del biorisanamento dei siti contaminati – vi ricordate il batterio mangia petrolio? – oggi le biotech green puntano a diventare un perno dell’economia circolare trasformando gli scarti in nuova materia prima per l’industria. Il limite che la chimica tradizionale sconta oggi, infatti, è legato alla sua natura poco ecologica: la parte rinnovabile utilizzata dalla chimica per produrre le soluzioni a lei richieste rappresentano il 10% (dati 2015). Il resto è costituito prevalentemente da derivati del petrolio (74%) e da gas naturale (15%). Poco, troppo poco pensando che un domani in cui le fonti fossili verranno a mancare, i biocarburanti li dovranno rimpiazzare, anche se per questo già oggi le tecnologie esistono. Ma serve puntare su una autentica bioeconomia che consideri anche la necessità di garantire la produzione di tutti quei materiali plastici e non che oggi sappiamo ricavare solo dal petrolio, il tutto senza mettere a rischio la sicurezza alimentare. Quindi occorre che prenda sempre più spazio. La bioeconomia ha un valore in Unione Europea pari a 2,1 trilioni di euro (dati 2013), il 50% della quale è costituita dal segmento alimentare che con l’agricoltura raggiunge il 60%.
Tuttavia tutta questa bioeconomia ha dei problemi da risolvere, che sono rappresentati dagli scarti. Occorre trasformarli in risorse, e in alcuni settori questo processo è già cominciato. I settori emergenti, quelli che puntano davvero a una scelta green, valgono la bellezza di 600 milioni di euro: in Italia, che conta il 12% sul totale della bioeconomia, in proporzione su questo comparto ne vale altrettanto.
Bioeconomia: le biotecnologie Made in Italy sono già eccellenza
Ma c’è di più: il valore delle biotecnologie italiane è davvero significativo, basti dire che su sette progetti industriali europei selezionati dal Biobased Industry Consortium, quattro hanno partner privati italiani. Quattro progetti del valore complessivo di 90 milioni di euro e che vedono come oggetto di sviluppo tecnologie d’avanguardia: la trasformazione della cellulosa in etanolo, da trasformare in biocarburante, alla base del progetto Bioskoh; c’è poi First2run che intende sfruttare il cardo per produrre plastiche, lubrificanti e altri composti ad alto valore totalmente naturali; il progetto Greensolres che utilizza l’acido levulinico derivato dalla biomassa per produrre un’ampia varietà di prodotti (dai cosmetici agli additivi per carburanti), una sostanza particolarmente ricercata e finora prodotta dal petrolio. Infine, il progetto Funguschain che punta a produrre, dalla paglia di scarto per la produzione dei funghi, materia prima per realizzare bioplastiche.
Inoltre, in Italia si contano più di 30 bioraffinerie che si occupano di produrre bioetanolo, biodiesel di prima e seconda generazione, prodotti di oleochimica e a base legno con una ampia gamma di prodotti: cellulosa, prodotti chimici a base biologica, biocarburanti, elettricità e calore e gli impianti che si occupano di biodegradabili con una gamma di prodotti utili a seconda dei rifiuti. E ci sono autentiche eccellenze mondiali come Novamont che tra i tanti progetti sta portando avanti la produzione green del butandiolo, un intermedio chimico, il cui mercato è stimato in 3,5 miliardi di euro, con una vastissima gamma di applicazioni, ma che finora è stato ottenuto industrialmente solo da fonti fossili. Ha investito più di 100 milioni di euro, per mettere in piedi lo stabilimento Mater-Biotech di Bottrighe (Rovigo), creando così il primo impianto industriale al mondo dedicato alla produzione.
Ma siamo solo agli inizi: «Se oggi la frontiera è produrre polimeri e non da matrici di scarto, come etilene e butandiolo, le nuove gomme, domani la frontiera sarà lo sviluppo di tecnologie per l’utilizzo della cellulosa e della lignina come materie prime, con l’obiettivo, dopodomani, di riuscire ad utilizzare direttamente la CO2 atmosferica per produrre i composti di cui abbiamo bisogno», conclude Ederle.
Andrea Ballocchi