Wise Society : Miliardi di pesci pescati diventano mangimi per i pesci allevati

Miliardi di pesci pescati diventano mangimi per i pesci allevati

di Valentina Neri
20 Febbraio 2024

Catturare pesci, macellarli e trasformarli in oli e farine da dare da mangiare ad altri pesci, stavolta di allevamento. È un paradosso che accade quotidianamente, come dimostra uno studio pubblicato nella rivista Animal Welfare

Quando si discute dei grossi problemi etici e ambientali legati alla pesca, in genere si dà per assodato un presupposto: cioè che, indipendentemente dalle legittime opinioni di ciascuno di noi, sia un’attività necessaria per la sicurezza alimentare. Perché nel mondo siamo ormai 8 miliardi di persone, 3,3 miliardi delle quali dipendono dal pesce almeno per il 20% del proprio apporto di proteine animali. In molti Paesi in via di sviluppo, tale percentuale sfonda il tetto del 50%. I dati sono corretti, ma ce ne sono anche altri che disvelano le enormi contraddizioni di questo settore. Perché miliardi di pesci selvatici vengono catturati e uccisi non per nutrire gli esseri umani, ma per preparare i mangimi per altri pesci, stavolta di allevamento. Uno studio pubblicato dalla rivista Animal welfare fa per la prima volta un’analisi completa di un fenomeno che ha dimensioni difficili perfino da immaginare.

Pesci pescati

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Lo studio sui pesci pescati trasformati in mangimi

Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2019, a livello globale sono stati catturati tra i 1.100 e i 2.200 miliardi di pesci pinnati selvatici, per un peso complessivo compreso tra i 74 e gli 83 milioni di tonnellate. A conti fatti, dunque, nel 2019 il numero di vertebrati usati per l’alimentazione umana e animale era costituito per l’87% da pesci catturati in natura. I dati sono dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO): sono dunque ufficiali ma inevitabilmente parziali, perché non includono tutti quei pesci che vengono catturati illegalmente, involontariamente o che finiscono nelle reti fantasma.

Lo studio, che porta la firma di Alison Mood (Fishcount) e Phil Brooke (Compassion in World Farming International), pone però l’accento su un altro dato. Ogni anno, tra i 490 e i 1.100 miliardi di pesci selvatici pescati, soprattutto di piccole dimensioni, vengono trasformati in farine e oli di pesce. Cioè in prodotti che, rispettivamente per il 70% e per il 73%, servono in acquacoltura per alimentare pesci e crostacei allevati. In altre parole: la metà dei pesci pinnati selvatici viene catturata per sfamare i pesci di allevamento, non gli esseri umani.

L’impatto sull’Africa occidentale

Già nel 2019 l’organizzazione ambientalista Greenpeace aveva pubblicato un report sullo stesso tema, dal titolo – inequivocabile – “Pesce sprecato”. A differenza di quella pubblicata da Animal welfare, questa precedente analisi si focalizzava su un’area geografica ben precisa, le acque al largo dell’Africa nordoccidentale, dove le catture totali di piccoli pelagici sono aumentate dalle 1,2 milioni di tonnellate del 1992 ai 2,7 milioni di tonnellate del 2017. Sempre nel 2017, Mauritania, Marocco, Senegal e Gambia hanno esportato complessivamente quasi 270mila tonnellate di farina di pesce.

È arduo reperire informazioni sulla proprietà delle fabbriche, sulla composizione dei prodotti e sull’impatto ambientale delle operazioni. In particolare, è difficile valutare quanto pesce sia adatto anche al consumo umano ma venga comunque destinato alla produzione di farine e oli. Come regola generale, per un chilo di farina servono 4-5 chili di pesce. E, in Africa occidentale, le specie primarie usate allo scopo sono alacce e (Sardinella aurita e S. maderensis) e alose (Ethmalosa fimbriata), preziose per il sostentamento della comunità di pescatori senegalesi e gambiani.

Acquacoltura

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I numeri della pesca e dell’acquacoltura

Dati del genere non possono non suscitare forti dubbi sulla sostenibilità dell’intero sistema. Osservando le statistiche della Fao, si nota infatti come a livello globale il volume di pesce pescato sia aumentato leggermente tra gli anni Novanta e il 2020, passando da 88,9 a 90,3 milioni di tonnellate all’anno. Nello stesso periodo, in compenso, il volume di pesce allevato è quadruplicato: da 21,8 a 87,5 milioni di tonnellate.

A prima vista può sembrare una buona notizia, perché sappiamo che il 90% degli stock ittici censiti è sovrasfruttato o pescato al massimo della propria resa. Se però l’acquacoltura si focalizza su pesci carnivori come il salmone, la trota o il tonno, e se questi pesci carnivori vengono sfamati pescando e macellando altri pesci, allora si innesca un circolo vizioso.

Invece di fungere da alternativa alla pesca eccessiva, l’acquacoltura finisce per depauperare ulteriormente le risorse ittiche già al collasso. Per giunta, lo fa in modo inefficiente. Perché per nutrire un singolo salmone allevato, fa sapere Compassion in World Farming, servono circa 440 pesci catturati in natura; pesci che, per la maggior parte, avrebbero potuto tranquillamente essere consumati dalle persone.

Valentina Neri

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