Così il presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi che individua nel consumo di suolo la causa principale delle calamità naturali che affliggono l'Italia
Alluvioni, frane, esondazioni, smottamenti. Catastrofi naturali che negli ultimi anni stanno flagellando il nostro paese. Ma che cosa si può fare per arginarli?
Wisesociety.it lo ha chiesto a Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi italiani. Scoprendo che spesso la prevenzione non basta. E che a volte abbattere le costruzioni sarebbe necessario.
Il nostro paese è sempre più attraversato da fenomeni naturali con conseguenze per persone e luoghi. Cosa sta succedendo?
In una normale evoluzione del territorio i versanti franano, i fiumi scorrono ed esondano. Ma una pericolosità si trasforma in rischio quando noi interferiamo con esso e costruiamo nel mezzo una casa, una città, un quartiere, un’area industriale. E così quegli elementi diventano a rischio. Noi abbiamo fatto questo in Italia e lo abbiamo moltiplicato in maniera esponenziale. Non abbiamo mai considerato l’evoluzione del territorio come fatto normale. Abbiamo pensato di essere noi a condizionare il territorio e ad agire su di lui facendo il contrario. E oggi ne paghiamo le conseguenze.
Le cause quindi non vanno imputate alla natura. Dagli anni ’70 ad oggi si è costruito così tanto da ricoprire l’equivalente del territorio di Liguria e Emilia Romagna messi insieme: paghiamo errori della politica che ha permesso di costruire e cementare?
Se non abbiamo percezione che consumare suolo significa avere sempre più aree a rischio dove l’acqua corre più velocemente, il risultato è quello che abbiamo davanti agli occhi. Ma negli ultimi dieci anni nonostante la crisi del settore edilizio abbiamo consumato ancora più suolo: da sette metri quadrati al secondo ad otto, secondo i dati del Centro europeo per la ricerca scientifica di Ispra.
E’ chiaro che, alla base, c’è una scelta sbagliata. Ma se oggi pensiamo che il solo rimedio per porre fine a tutto ciò è una legge contro l’abusivismo non abbiamo capito l’entità della questione.
Quali sono le zone più a rischio dal punto di vista geologico in Italia?
Tutte le piccole e grandi città attraversate dai fiumi dato che i vincoli di edificabilità rispetto ai corsi d’acqua sono stati progressivamente ristretti. Firenze, Genova. Ma anche città come Messina non attraversate da fiumi ma nel cui sottosuolo scorrono piccoli corsi d’acqua che sono stati tutti tombati. Penso poi alle fiumare di Reggio Calabria. Sono tantissime le zone del nostro stivale a rischio da Nord a Sud.
Troppo poco quello che abbiamo fatto per prevenire le calamità?
Sì oggi le uniche opere che abbiamo realizzato in questa direzione sono quelle relative all’innalzamento degli argini. Interventi tampone dato che si dovrebbe lavorare a monte per rallentare la velocità delle acque che arrivano al mare. Per esempio favorendo le infiltrazioni e riducendo così le quantità di acqua che scende a valle. Però per quelle aree in cui il grado di rischio è inaccettabile, sarebbe ora di adottare una politica forte e abbattere le costruzioni.
La prevenzione gioca un ruolo fondamentale: per ogni euro speso in prevenzione se ne risparmierebbero dieci. E’ così difficile fare attività di prevenzione?
La parola prevenzione comprende tantissime azioni: pulizia dei letti dei fiumi, manutenzione. Ma anche consapevolezza, educazione dei cittadini, altri modi di concepire le progettazioni. Nel nostro ordinamento non c’è nessuna norma che dica che la progettazione debba essere compatibile con il territorio. E così realizziamo delle opere architettoniche senza essere in dovere di domandarci se a monte o a valle di quel territorio si creano dei problemi. Ma la stessa cosa avviene anche per le azioni di difesa del suolo come il contenimento di un argine o il consolidamento di un versante. Oquando si realizza una scogliera per proteggere un tratto di costa e poi tre km più in là scompare una spiaggia.
Nel nostro paese manca una cultura geologica?
Assolutamente. Siamo molto indietro. Dovremmo lavorare molto e fare in modo che, come avviene per la cultura ambientale e per la biodiversità, sia percepita a livello politico e sociale.
Ci vorrebbero più geologi?
Sì, soprattutto nell’ambito della Pubblica Amministrazione laddove vengono prese decisioni strategiche per lo sviluppo del territorio. Se pianifichiamo, se facciamo delle scelte politiche senza una visione più ampia diventa più difficile e costoso mettere il cerotto dopo.
Oggi è impensabile che un ufficio tecnico di un comune non abbia un architetto, un geometra e un ingegnere per l’aspetto urbanistico, per le fognature, per la discarica. Se ne sente l’esigenza. Ciò dovrebbe avvenire anche per il geologo. E città come Genova per esempio non possono permettersi di non averne neanche uno.
Ci sono però esempi positivi come quello della frana di Courmayeur.
Lì si è agito bene perché c’è stata un’attività di prevenzione e monitoraggio da parte del comune e degli organi regionali. I tecnici hanno lavorato costantemente a fianco dei geologi. Ma non è il solo. Le potrei citare la frana di Montaguto in provincia di Avellino che, grazie ad attività di studio e monitoraggio costante, è stata messa in sicurezza. Con una spesa relativamente contenuta.
La dimostrazione che si potrebbe fare molto se solo lo si volesse…