Wise Society : Disoccupazione e precarietà producono stress: come recuperare serenità?
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Disoccupazione e precarietà producono stress: come recuperare serenità?

di Francesca Tozzi
10 Giugno 2013

Oggi chi lavora vive spesso disagi psicologici simili a chi un lavoro non riesce a trovarlo sia per l'incertezza della propria posizione sia perché il carico aumenta sulle poche risorse rimaste in azienda mentre le retribuzioni diminuiscono. La psicologa Valentina Calzi indica qualche utile strategia per stare meglio anche in tempi di crisi e assenza di prospettive

Valentina CalziNella civiltà occidentale contemporanea stiamo da tempo assistendo al diffondersi di un atteggiamento di scarsa fiducia nel futuro che spesso sfocia in una completa perdita di speranza. Gli individui vivono stati di solitudine e incertezza legati al lavoro, alla sua mancanza o alla sua precarietà. In assenza di punti di riferimento, il non poter comprare una casa, essere indipendenti economicamente e costruire una famiglia finisce alla lunga per erodere l’autostima. Persone che appartengono a diverse generazioni sono accomunate da uno stato d’animo negativo caratterizzato da ansia, tensione, spesso depressione.

E proprio in un momento storico in cui siamo chiamati a sopravvivere a una fase di transizione quanto mai pesante e complessa, guadando un fiume mosso e fangoso, cercando di portare quante più cose sull’altra riva insomma in un momento in cui dovremmo tirare fuori le nostre migliori risorse, l’energia, in esaurimento, latita e non ci consente di far fronte e tutti gli impegni e le responsabilità cui siamo chiamati. Molte aziende lavorano con gli organici ridotti all’osso, con un parco risorse umane che, dimezzato e spesso demotivato, si trova a dover gestire un carico di lavoro uguale se non superiore. È il problema, molto attuale, dello stress da lavoro che colpisce non solo la salute e il benessere dei dipendenti ma anche la produttività delle aziende. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Valentina Calzi, psicologa e responsabile del Centro Psicologia Insieme, che da quando siamo stati investiti dalla crisi economica globale ha visto crescere in modo esponenziale i vissuti d’angoscia, gli attacchi di panico e le fobie.

Precarietà: un'illustrazione

Image by © Roy Scott/Ikon Images/Corbis

Dottoressa Calzi, parliamo di questo stress da lavoro

È un problema complesso legato non solo alla disoccupazione che spesso si protrae a lungo e all’instabilità di molte posizioni legate a contratti a termine – senza dimenticare quelli che lavorano senza alcun contratto – ma anche all’incremento della quantità di lavoro, al cambiamento dei ritmi e degli schemi lavorativi, all’innalzamento degli obiettivi da raggiungere, all’aumento della competitività. La fascia d’età più colpita dall’ansia per la precarietà del lavoro è quella che va dai 25 ai quarantanni, dai neolaureati a quelli che molto tempo dopo ancora non hanno stabilizzato la propria situazione. Qui dominano i contratti a tempo determinato e l’insoddisfazione legata al fatto che mansioni e retribuzione non sono coerenti con la propria competenza ed esperienza. Molti svolgono un lavoro che non c’entra niente con il proprio percorso di studi: lo fanno per necessità senza comunque una stabilità. Questo porta a difficoltà nel quotidiano e nelle relazioni dato che, per esempio, non si possono permettere una casa.

E dai quaranta in su?

La maggior parte ha un posto di lavoro che era sicuro ma con la crisi, le difficoltà ad arrivare a fine mese e la chiusura di molte aziende si trova a vivere anch’essa una situazione di incertezza aggravata dalla paura di non riuscire a trovare un nuovo lavoro in caso di licenziamento. A 50 anni questa più che una paura è una realtà. Senza dimenticare che spesso si fanno carico dei figli che non riescono a trovare un’occupazione nonostante laurea e master. Questo innesca un circolo vizioso di ansia generalizzata. Genitori e figli non possono che influenzarsi negativamente nonostante i primi, quando possono, diano volentieri un aiuto economico ai secondi. Ma è lo stesso modo di lavorare nelle aziende a essere cambiato.

In che senso?

Oltre all’aumento del carico e delle pretese della dirigenza associato a un calo dei salari, assistiamo anche a un aumento della competitività perché prima c’era un lavoro maggiormente individuale: ciascuno aveva un ruolo riconosciuto e faceva la sua parte per avere una produttività. Ora domina il lavoro di gruppo con dinamiche che spesso mettono alcune risorse sotto pressione innescando alterazioni dell’umore ed esaurimento.

Come possiamo fare per contrastare questa tendenza?

Mondo del lavoro: un'illustrazione

Image by © Luciano Lozano/Ikon Images/Corbis

Innanzi tutto le aziende devono riprendere a considerare gli individui appunto come risorse per cui se la dirigenza riuscisse a supportare i propri dipendenti con delle strategie di gruppi che non devono essere per forza terapeutici ma possono essere gruppi di confronto, motivazionali, volti a far sentire il dipendente importante e compreso nelle sue esigenze e difficoltà. Molti si lamentano del fatto che questo genere di iniziative, così come i corsi di aggiornamento, sono diminuiti a causa delle minori risorse da investire in formazione ma è anche vero che, avendo meno dipendenti che devono produrre di più, consentire loro di vivere più serenamente il tempo in ufficio può fare la differenza. Le piccole aziende non se lo possono permettere ma le multinazionali sì ed è proprio in questi ambiti che si stanno più sviluppando queste strategie motivazionali. Spesso l’azienda, tramite convenzioni con i centri che gestiscono i gruppi, riesce ad abbattere i costi perché gli accordi si traducono in reciproca visibilità. Ecco che la cosa diventa più fattibile.

Non tutti credono nei gruppi, li considerano “americanate”

Sulla base della mia esperienza, invece, devo dire che io li considero molto efficaci perché consentono di abbattere i livelli di ansia e di aumentare la produttività. Il gruppo consente di rielaborare dei vissuti spesso comuni, problemi che si ingigantiscono partendo da banalità, situazioni di stallo che si sbloccano grazie al dialogo. Parlare, ridimensionare le cose, chiarire i malintesi è la prima cosa da fare per recuperare risorse psico-fisiche e produttività.

E a livello individuale cosa si può fare per abbattere l’ansia da lavoro?

 Image by © Marie Bertrand/CorbisPer sbloccare situazioni di tensione e ansia che si ripetono tutti i giorni in ufficio io consiglio, quando possibile, un supporto terapeutico o dei colloqui di sostegno. La persona, però, ha degli ampi margini per lavorare su se stessa e sui propri pensieri: praticare delle tecniche di rilassamento, cambiare i propri schemi mentali in senso positivo e cambiare di conseguenza anche il modo di affrontare la precarietà, le tensioni o il maggior carico di lavoro. Mi rendo conto che da soli è difficile. Il colloquio in questo senso è utile perché dà un radicamento, è un percorso di crescita che permette all’individuo di ritrovare le certezze dentro se stesso riscoprendo e riattivando le proprie risorse energetiche e psichiche per affrontare eventi della vita che possono destabilizzarlo. Tramite il lavoro su se stesso, il rilassamento, la consapevolezza e l’aiuto di un terapeuta, può recuperare una centratura e gestire meglio l’ansia. Il metodo della Bioenergetica di Lowen che io utilizzo per andare oltre le corazze difensive della persona e lavorare su blocchi corporei ed emozionali è efficace perché mi consente di raggiungere la sua profondità senza entrare a gamba tesa.

Secondo lei quanto di questo stress da lavoro si ripercuote sulle relazioni, sulla loro difficoltà o assenza?

Partiamo con il sottolineare quanto il nostro modo di vivere sia diventato individualista: le persone tendono a pensare molto più a se stesse e sono meno propense a impegnarsi con qualcuno perché questo comporterebbe dei compromessi che non sanno accettare. Al narcisismo egoriferito che caratterizza la nostra società si aggiunge il carico dei pensieri, delle preoccupazioni e delle paure legate alla precarietà o assenza di lavoro che certo non lascia molto spazio alle relazioni e nemmeno predispone a coltivarne di serie. Lo stress è sia quello del disoccupato che, depresso, non riesce ad avere una vita sociale sia del lavoratore che, impegnato a fare straordinari non pagati, non riesce a sua volta ad averne una per altri motivi. Non parliamo poi dello sposarsi e mettere su famiglia, prospettiva che o non è fattibile o richiede una presa di responsabilità cui si è sempre meno propensi.

Come si esce da questa spirale?

Ritagliandosi del tempo per meditare, per telefonare a un amico, per condividere momenti gratificanti con le persone che amiamo. Non aver paura di mostrarsi nella propria autenticità. Potrà suonare banale ma spesso l’ansia e i problemi del lavoro creano una sofferenza che fa chiudere le persone e le isola, spesso perché non se la sentono di portare una maschera. Ma si tratta di problemi condivisi da molti. Non sto dicendo di scaricare la propria negatività sugli altri ma di far capire a chi fa parte della nostra vita affettiva quali sono i problemi che stiamo affrontando, permettendo loro di comprendere che dietro a certi comportamenti, come la mancanza di disponibilità, c’è una ragione. L’essere sinceri, il sapersi mostrare vulnerabili, il saper condividere anche i problemi pur se in modo costruttivo con gli amici e i potenziali partner è un modo per assicurarsi una vita sociale e affettiva anche nei momenti di crisi. È anche un modo di alleggerire il carico quando si è sopraffatti dall’ansia. Inutile fare gli eroi o fingere, può solo servire ad aumentare la tensione.

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