Wise Society : La Norvegia potrebbe essere il primo Stato che apre al deep sea mining

La Norvegia potrebbe essere il primo Stato che apre al deep sea mining

di Valentina Neri
22 Gennaio 2024

Nonostante i forti dubbi sul suo impatto ambientale, la Norvegia vuole andare avanti con il deep sea mining, l’esplorazione dei fondali oceanici alla ricerca di risorse minerarie

Non sono bastati gli avvertimenti degli scienziati, né l’orientamento opposto da parte dell’Unione europea e del Regno Unito. A gennaio 2024 il Parlamento della Norvegia, con una schiacciante maggioranza, ha approvato una legge che permette la mappatura e le esplorazioni alla ricerca di minerali nei fondali delle acque territoriali. Così facendo, il Paese nordico si avvicina a essere il primo al mondo ad approvare il deep sea mining per finalità commerciali.

Fondale oceanico

Foto Shutterstock

Deep sea mining, lo sfruttamento dei fondali marini

Ma cosa si intende per deep sea mining? Il nome, in sé, è piuttosto esplicativo: il deep sea mining, infatti, è il processo di ricerca ed estrazione di risorse minerarie dai fondali marini ad almeno 200 metri di profondità. Come funziona? Semplificando, si calano dalle navi enormi macchinari che risucchiano dal fondale i materiali, per poi riportarli in superficie e separare i metalli dai sedimenti e dall’acqua di mare; questi ultimi vengono pompati nuovamente nell’oceano.

Viene spontaneo chiedersi cosa si celi di così prezioso negli abissi. In realtà, i giacimenti sono smisurati e fanno gola a molti. Da un lato infatti ci sono i noduli polimetallici, simili a patate, da cui ricavare nichel, cobalto, manganese, rame e ferro, ma anche piccole quantità di terre rare, titanio, molibdeno e litio. Poi ci sono i seamounts (rilievi isolati di origine vulcanica) ricoperti di croste di cobalto, anch’esso utile per le batterie. Infine, i camini idrotermali sono costituiti da solfuri polimetallici, ricchi di ferro, zinco, rame e manganese, oltre a tracce di altri metalli.

I rischi ambientali

Dietro il deep sea mining dunque ci sono interessi economici di tutto rispetto, ma è impossibile chiudere gli occhi di fronte ai suoi rischi ambientali. Scavare sui fondali, ricorda l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), significa alterare, frammentare o addirittura distruggere il loro habitat. Significa creare rumori, vibrazioni e luci che disturbano pesci e cetacei, oppure avvelenarli con carburante o sostanze tossiche perse da navi e macchinari. Significa sollevare sedimenti che possono disperdersi per chilometri e chilometri, soffocando gli animali marini o ostacolando la loro vista.

Queste peraltro sono le ipotesi più accreditate, ma la verità è che in gran parte questi rischi sono ancora sconosciuti. Ad oggi, infatti, più dell’80% dell’oceano non è mai stato esplorato, mappato o addirittura nemmeno visto da occhio umano. Per intenderci, conosciamo meglio Marte rispetto agli abissi oceanici del Pianeta in cui abitiamo. Per questo, nel 2021 i membri della Iucn hanno adottato una moratoria sull’estrazione mineraria dai fondali profondi, fino a quando gli operatori non saranno in grado di fornire garanzie ben precise.

Pietra ricca di metalli prelevata dai fondali marini

Pietra ricca di metalli prelevata dai fondali marini – Foto Shutterstock

Cosa prevede la legge della Norvegia

È bene precisare che in Norvegia non è ancora possibile estrarre minerali dai fondali oceanici. La legge che è stata approvata dal Parlamento, con un sostegno bipartisan, permette alle aziende di chiedere le licenze per mappare ed esplorare le aree che ricadono nelle acque territoriali. In tutto si estendono su oltre 280mila chilometri quadrati: per avere un termine di paragone, è più della superficie del Regno Unito. Come ci tiene però a precisare il governo norvegese, le licenze verranno rilasciate solo dopo aver condotto ulteriori valutazioni di tipo ambientale.

Le critiche

Già prima di questo voto, una petizione contro il deep sea mining lanciata dal movimento Avaz aveva raccolto più di mezzo milione di firme. 120 europarlamentari – con un’iniziativa piuttosto inusuale – si sono rivolti direttamente ai legislatori norvegesi, chiedendo loro di opporsi. Tramite una lettera aperta, hanno ricordato i grossi rischi ambientali legati alle attività estrattive, sostenendo che le valutazioni condotte dal governo avessero svariati punti deboli.

Il tono della polemica si è inevitabilmente alzato dopo il sì dell’assemblea. “È imbarazzante vedere la Norvegia che si posiziona come leader per gli oceani mentre dà il semaforo verde alla distruzione dell’oceano nelle acque artiche”, ha dichiarato Frode Pleym, a capo di Greenpeace Norvegia. “Ma la storia non finisce qui. L’ondata di proteste contro il deep sea mining è appena cominciata”.

Lo scarico dei rifiuti minerari nei fiordi

Nelle stesse ore, il governo norvegese si è attirato parecchie critiche anche per una questione distinta, ma anch’essa piuttosto controversa e legata al comparto minerario. Al termine di una disputa legale trascinatasi per quindici anni, l’azienda Nordic Mining ha ricevuto il via libera per sversare 170 milioni di tonnellate di rifiuti minerari nei fondali del fiordo Førde. Può depositarne fino a 4 milioni di tonnellate all’anno in un’area di circa 4 chilometri quadrati; ma i suoi dirigenti fanno sapere di non voler superare gli 1,2 milioni di tonnellate all’anno.

Una sconfitta per le due organizzazioni ambientaliste Friends of the Earth Norvegia e Nature and Youth, che ora dovranno anche rimborsare le spese legali (pari a circa 120mila euro) e dubitano di potersi permettere il ricorso in appello. Per Truls Gulowsen, a capo di Friends of the Earth Norvegia, “è imbarazzante che la Norvegia pratichi ancora lo smaltimento dei rifiuti in mare. Forse mostra un’attitudine antiquata nei confronti del mare, trattandolo così: ciò che non si vede non ci riguarda. Questo è l’esatto opposto di ciò che ci si dovrebbe aspettare da una nazione marittima”. Salta all’occhio il fatto che i paesi che ancora erogano licenze per rilasciare i rifiuti in mare siano soltanto tre: Papua Nuova Guinea, Turchia e – ora – anche Norvegia.

Chi regola il deep sea mining in acque internazionali

Per quanto la Norvegia abbia manifestato un’attitudine favorevole al deep sea mining, il suo potere decisionale si limita alle acque territoriali. Per le acque internazionali a decidere è la International Seabed Authority (ISA), un’organizzazione intergovernativo con sede a Kingston, in Giamaica. Gli ultimi negoziati dello scorso luglio sono stati segnati da una spaccatura tra i Paesi partecipanti, con Brasile, Costa Rica, Cile, Vanuatu, Germania e Svizzera che hanno mantenuto una ferma opposizione, mentre nazioni– la Norvegia appunto, ma anche Nauru e il Messico – più inclini ad assecondare l’industria. Alla fine, la linea più conservativa ha prevalso. Ma il dibattito è ancora apertissimo e, con simili interessi economici in gioco, è lecito attendersi ulteriori sviluppi.

Valentina Neri

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