Wise Society : Deep sea mining, lo sfruttamento degli abissi oceanici

Deep sea mining, lo sfruttamento degli abissi oceanici

di Andrea Ballocchi
7 Giugno 2023

L’attività estrattiva dei fondali oceanici è controversa: da una parte la ricerca di minerali preziosi, dall’altro il rischio di violare ecosistemi unici. Un trattato potrebbe cambiare le cose

Potrebbe aprirsi una nuova stagione per il deep sea mining. L’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA) il prossimo luglio inizierà ad accettare le domande dalle aziende che vogliono avviare attività estrattive nell’oceano. La decisione è giunta dopo che l’organismo delle Nazioni Unite ha trascorso le ultime settimane a discutere gli standard per la nuova e controversa pratica, riporta Reuters. L‘oceano profondo costituisce anche oltre il 90% di tutto lo spazio vitale del pianeta e svolge un ruolo chiave in servizi come la regolazione del clima, la produzione ittica e il ciclo elementare. Le immense ricchezze potenzialmente estraibili, in terre rare e altri minerali preziosi, generano molteplici interessi. Ma c’è da pensare alla salvaguardia degli oceani, fondamentali per la vita.

Fondale marino

Foto di wanzi989813 da Pixabay

Cos’è il deep sea mining

L’estrazione mineraria in acque profonde (deep sea mining) è il processo di recupero, estrazione e scavo di depositi minerali dal fondale marino profondo. Come spiega lo IUCN (International Union for Conservation of Nature), il fondale marino profondo è presente a profondità oceaniche superiori a 200 metri e copre circa i due terzi del fondale marino totale.

Come funziona

Si prevede di utilizzare grandi macchine robotiche per scavare il fondo dell’oceano in un modo simile allo strip-mining sulla terraferma. I materiali vengono pompati fino alla nave, mentre le acque reflue e i detriti vengono scaricati nell’oceano, formando grandi nubi di sedimenti sott’acqua.

Deep sea mining: infografica

Immagine IUCN

Deep sea mining pro e contro: le ricchezze che giacciono in fondo al mare

L’attività di deep sea mining registra un interesse crescente a causa dei giacimenti minerari dei fondali marini: nichel, rame, cobalto, manganese, zinco, oro e altri metalli e minerali delle terre rare. La domanda di questi metalli è in aumento anche per produrre tecnologie fondamentali per la società moderna, dalle telecomunicazioni all’energia fino alla mobilità.

Entro maggio 2022, l’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA), che regola le attività nei fondali marini al di fuori della giurisdizione nazionale, aveva emesso 31 contratti per l’esplorazione di depositi minerari di acque profonde. Più di 1,5 milioni di chilometri quadrati di fondali marini internazionali (un’area pari alle dimensioni della Mongolia), sono stati riservati all’esplorazione mineraria. Metalli e minerali, rari e preziosi, si trovano sul fondo oceanico, incorporati in tre tipi di forme minerali: crosta ricca di cobalto, solfuri polimetallici e noduli polimetallici, quest’ultimo tipo che forma campi di fondale marino che possono essere lunghi migliaia di miglia.

Un pericolo per la biodiversità

Si ritiene che la zona di frattura di Clarion Clipperton nell’Oceano Pacifico sia il fondale marino più ricco di minerali al mondo. Proprio la Clarion Clipperton Zone (CCZ) e le recenti scoperte hanno messo in evidenza i pericoli insiti alla deep sea mining. Quest’area di fondale marino grande circa il doppio dell’India (circa 6 milioni di km2), tra Hawaii, Kiribati e Messico, si trova interamente all’interno di aree al di fuori della giurisdizione nazionale (ABNJ), legalmente designate ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS). La regione è composta da fondali marini abissali a profondità di quattro e seimila metri, caratterizzati da sedimenti fangosi ricoperti da noduli polimetallici, ricchi di minerali.

Un articolo scientifico pubblicato su Current Biology, a cura di un team di scienziati, ha messo in luce che sono ben 5.142 le specie senza nome rintracciate nell’area, che ne fanno uno scrigno di enorme importanza per la biodiversità. “Si stima che il 92% delle specie identificate dal CCZ siano nuove per la scienza”, si legge.

Benché sia molto ricca, l’area citata è solo una parte dell’oceano profondo, che costituisce anche oltre il 90% di tutto lo spazio vitale del pianeta e svolge un ruolo chiave in servizi come la regolazione del clima, la produzione ittica e il ciclo elementare. “È parte integrante della cultura e del benessere delle comunità locali e il fondale marino fa parte del patrimonio comune mondiale, che appartiene a tutti sul pianeta e a tutti quelli che verranno”, scrive Douglas McCauley, docente dell’University of California Santa Barbara e membro Friends of Ocean Action, e Diva Amon, consulente scientifico della Benioff Ocean Initiative, e membro dell’ateneo californiano.

La poca conoscenza sulla gestione dei fondali

Sono loro a mettere in evidenza il rischio di poca conoscenza della ricchezza in biodiversità che c’è nei presunti esperti a proposito di fondali oceanici. “Il 57,8% delle categorie scientifiche valutate per le regioni con aree di esplorazione mineraria ha dimostrato di non avere o quasi nessuna conoscenza scientifica per consentire una gestione basata sull’evidenza – scrivono i due scienziati –. Senza informazioni sull’ambiente, la biodiversità e l’ecologia, i potenziali rischi dell’estrazione mineraria in acque profonde per la biodiversità, gli ecosistemi e il funzionamento degli oceani profondi, nonché per il benessere umano, non possono essere pienamente compresi”.

Le compagnie minerarie sottomarine affermano che le loro operazioni in acque profonde sono meno distruttive rispetto alle analoghe attività minerarie terrestri e sono una buona alternativa all’espansione della rimozione delle cime delle montagne sulla terraferma, ma non ci sarebbero prove a sostegno dell’affermazione.

I rischi sottesi all’estrazione

Sulla base delle attuali conoscenze sulle profondità marine, i seguenti impatti delle attività minerarie potrebbero influire sulla biodiversità e sugli ecosistemi in vari modi, segnala lo IUCN. Intanto c’è il rischio di perturbazione del fondale marino. Lo scavo e la misurazione del fondale oceanico da parte delle macchine può alterare o distruggere gli habitat di acque profonde. Ciò porta alla perdita di specie.

L’estrazione mineraria in acque profonde solleverà sedimenti fini sul fondo del mare, creando pennacchi di particelle sospese. Ciò è aggravato dalle navi minerarie che scaricano acque reflue in superficie. Gli scienziati temono che queste particelle possano disperdersi per centinaia di chilometri, impiegare molto tempo per reinsediarsi sul fondo del mare e influenzare gli ecosistemi e le specie commercialmente importanti o vulnerabili.

C’è poi il rischio di inquinamento, in varie forme. Balene, tonni e squali potrebbero essere influenzate dal rumore, dalle vibrazioni e dall’inquinamento luminoso causato dalle attrezzature minerarie e dalle navi di superficie, nonché da potenziali perdite e fuoriuscite di carburante e prodotti tossici. A ciò si aggiungono le cause di stress del mondo marino e oceanico, tra le quali c’è anche l’acidificazione.

Luoghi dello sfruttamento dei fondali oceanici

Grafico ISA

Il trattato per la protezione degli oceani

La speranza che questa attività non venga portata avanti arriva dal trattato, noto come BBNJ (Biodiversity Beyond National Jurisdiction, Biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale). Lo scorso mese di marzo si sono conclusi i negoziati globali sullo storico Trattato per proteggere l’oceano, affrontare il degrado ambientale, combattere il cambiamento climatico e prevenire la perdita di biodiversità.

Il nuovo trattato – specifica la Commissione Europea – consentirà di istituire aree marine protette su larga scala in alto mare, necessarie anche per soddisfare l’impegno globale dell’accordo Kunming-Montreal Global Biodiversity concluso lo scorso dicembre per proteggere almeno il 30% dell’oceano entro il 2030. “Per la prima volta, il trattato richiederà anche di valutare l’impatto delle attività economiche sulla biodiversità in alto mare”. I paesi in via di sviluppo saranno sostenuti nella loro partecipazione e attuazione del nuovo trattato da una forte componente di sviluppo delle capacità e trasferimento di tecnologia marina, finanziata da una varietà di fonti pubbliche e private e da un meccanismo equo per condividere i potenziali benefici delle risorse genetiche marine.

Fra rischi e opportunità

Con quasi una specie su dieci a rischio di estinzione e la crescente pressione del cambiamento climatico, il trattato fornisce un quadro per la creazione di aree protette in alto mare, a volte note come acque internazionali. È stato considerato cruciale per sostenere l’obiettivo di proteggere il 30% degli oceani entro il 2030. Al momento, vengono protetti poco più dell’1% degli oceani.

Sarebbe davvero uno storico traguardo, cui si è lavorato da tanto tempo: il BBNJ era in lavorazione da circa 40 anni. Il trattato si estende non solo alla colonna d’acqua ma, a profondità superiori a 200 metri, al fondo marino stesso. Il trattato potrebbe aiutare a proteggere gli oceani da potenziali danni ambientali causati dall’estrazione di metalli come cobalto, manganese e nichel nei fondali marini. Tuttavia, il nuovo Trattato d’alto mare potrebbe infine avere un’importante influenza globale nella protezione dei fondali marini, ma ci vorranno molti mesi per essere ratificato e attuato. Il rischio è che l’incombente scadenza di luglio conti di più il deep sea mining.

Andrea Ballocchi

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