Wise Society : Hikikomori, fenomenologia dell’isolamento sociale volontario

Hikikomori, fenomenologia dell’isolamento sociale volontario

di Paola Greco
3 Agosto 2023

Avere paura di relazionarsi con gli altri, sentirsi sempre sotto pressione e non all’altezza, non riconosciuti, non apprezzati dalla società. È questo che porta sempre più adolescenti a chiudersi nella propria camera, ad isolarsi, fino a quando uscire è sempre più difficile, fino a quando non è troppo tardi

Abbiamo sperimentato tutti durante la pandemia una condizione di isolamento forzato: chi più chi meno, ognuno di noi ricorda la sensazione di disagio quando – finalmente – abbiamo ricominciato a stare in mezzo agli altri. Quello che è successo alla stragrande maggioranza di noi in quella particolarissima occasione è stato adattarsi fino ad abituarci alla nuova necessità di stare in casa, tanto che, una volta fuori, molti sono stati assaliti dall’ansia di dover tornare in società fisicamente. Oggi ci è quindi più facile immaginare cosa provano gli hikikomori, ragazzi e ragazze che si auto-isolano perché hanno difficoltà a relazionarsi. In realtà il fenomeno è molto più complesso ma qui proveremo a diramare la matassa partendo prima di tutto dal significato del termine.

Definizione di hikikomori

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Cosa vuole dire Hikikomori?

Hikikomori” è una parola giapponese che indica lo “stare in disparte” e viene utilizzata per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, che possono andare da qualche mese fino ad arrivare a diversi anni: ci si rinchiude in casa, a volte nella propria camera, tagliando tutti i contatti diretti con l’esterno: niente più scuola, sport, oratorio, niente più amici, a volte si riducono al minimo anche i contatti con i genitori.

La parola scelta per indicare questa condizione è giapponese perché è in Giappone che, negli anni ‘80, si sono registrati i primi episodi ufficiali: e se nel Paese nipponico oggi si contano oltre 1 milione di casi accertati, in Italia, pur in assenza di dati ufficiali, si stimano all’incirca 100 mila casi.

Ragazzo hikikomori

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Hikikomori: chi sono i soggetti più vulnerabili

È un disagio adattivo che riguarda soprattutto i ragazzi molto giovani, per loro natura più vulnerabili: l’età media in cui nasce l’impulso al ritiro sociale è tra i 15 anni e i 20 anni, anche se questa media tende ad alzarsi. Si tratta di un periodo chiave della vita di ognuno: l’adolescenza esaspera le difficoltà relazionali ed amplifica tutta una serie di sentimenti, è un periodo di confusione e instabilità che può a volte degenerare, mettendo in discussione tutte le regole esistenziali, affondando in una palude di non-motivazione.

Altro dato interessante riguarda il genere: il 70-90% dei ragazzi che soffrono di questo disturbo sono maschi, ulteriore problematica legata molto probabilmente al fatto di ricevere una educazione di genere molto tossica che, oltre a dar vita ad adulti maschilisti e discriminazioni di genere, può avere anche risvolti autodistruttivi. La repressione dell’emotività che si insegna ai maschietti fin da piccoli, il dover sempre dimostrare di essere forti, performanti, potrebbe portare i ragazzi più fragili a sentirsi inadeguati nella vita sociale.

Abbiamo detto che in Giappone questo fenomeno si è diffuso a partire già dagli anni ’80: oggi sono tantissimi gli over 40 che si sono autoreclusi da ragazzi e non sono più usciti. Non è una fase della vita, ma una condizione che tende a cronicizzarsi, un gatto che si morde la coda: più stai a casa, maggiore è la difficoltà a ricominciare ad uscire, maggiori sono la paura e il disagio, e può durare tutta la vita.

Le cause del fenomeno

Difficoltà e paura nel relazionarsi, sopraffatti dall’ansia del giudizio, dalla pressione sociale a dover aderire a un modello, senza riuscire ad affermarsi nella propria unicità. Incapacità di affrontare le difficoltà quotidiane, perdita di fiducia e interesse nella società, ansia, confusione, apatia, malessere generalizzato: sono questi i fattori che inducono i ragazzi a chiudersi nella loro camera.

Gli hikikomori si sentono soli e a disagio in mezzo alla gente, non si vedono riconosciuti e apprezzati per quello che sono veramente, avvertono di essere in qualche modo diversi dagli altri, non uniformati, e sentono che la società non solo non li accetta, ma addirittura li respinge.

Si avverte la difficoltà a legarsi con gli altri, le relazioni sono vissute in modo negativo, fino a sviluppare una perdita di interesse, una mancanza di motivazione e di senso stesso della propria vita. Ci si trova sopraffatti da un disagio profondo, che inizialmente spinge la persona ad allontanarsi dalla società, ma pian piano si trasforma in una scelta razionale, che viene portata avanti nel tempo in quanto manca una motivazione profonda per affrontare e superare i propri problemi per poter vivere serenamente nella società.

Uscire e uscirne diventa sempre più difficile perché, stando da soli, viene a mancare il confronto con gli altri – da cui derivano spunti di riflessione – e si tende ad appiattire la propria concezione della realtà, a vedere solo le cose che vanno a rafforzare le proprie idee negative. Marco Crepaldi, psicologo che da anni si occupa di divulgazione online, in particolare della problematica hikikomori, spiega che un campanello d’allarme può essere la pulsione all’isolamento sociale. Se si arriva all’abbandono scolastico si è già in uno stato molto avanzato, può essere già troppo tardi: è per questo che parlare con i figli, ascoltarli, forse oggi più che mai, è davvero fondamentale.

La dipendenza da internet

È necessario sfatare il pregiudizio secondo il quale questo disagio coincide con la sindrome da dipendenza da internet. Negli anni ‘80 i primi hikikomori, in Giappone, si isolavano e passavano il tempo leggendo, guardando la televisione, dimostrando una volontà se vogliamo ancora più estrema e decisa di auto-reclusione.

Certamente il fenomeno – nato a livello sociologico per tutta una serie di varianti primo fra tutti la crescente competitività sociale – può aver avuto un’accelerazione nella diffusione grazie al fatto che internet abbia reso la scelta dell’isolamento un’opzione di vita più accattivante rispetto a prima. Avere accesso alla rete, e attraverso di essa al mondo esterno, nonostante la scelta dell’isolamento, rende questa scelta più accessibile, ma anche meno estrema per coloro che avevano la tendenza a isolarsi.

Benchè le due cose non coincidano, è comunque un dato di fatto che tanti hikikomori sviluppano un legame molto forte con le nuove tecnologie (da cui la confusione), che rappresentano una finestra sul mondo, ma sono anche fonte di intrattenimento e svago attraverso i videogiochi.

Un'illustrazione che evidenzia il fenomeno dell'hikikomori

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L’Hikikomori evidenzia un disagio sociale profondo e complesso

Marco Crepaldi definisce il fenomeno come “una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate”. E qui è racchiuso tutto quello che gira intorno a questo disagio. Approfondiamone le caratteristiche,

  • Non si tratta di uno status, ma si sente il bisogno di stare da soli, di allontanarsi dalla società, quindi una pulsione all’isolamento fisico. Che si contrasti questo bisogno o lo si assecondi dipende da tutta una serie di variabili, anche affettive.
  • È continuativo nel tempo: un momento capita a tutti, ma isolarsi per un periodo continuato, che può andare da uno a tre anni, o durare ancora più a lungo, è molto diverso.
  • Si innesca come una reazione difensiva: ci si sente sotto pressione, tutto concorre alla competizione e benché competere socialmente faccia parte dell’essere umano, nella società moderna è tale da creare uno squilibrio enorme, una pressione insostenibile aggravata per di più dai famigerati social, dove tutti sono felici, perfetti, performanti, sempre impegnati in qualcosa di fantastico. Distinguere tutto questo dalla vita vera non è sempre facile.
  • Tipico delle società economicamente sviluppate, quindi del benessere: queste pressioni sono così forti perché diamo per scontate tutta una serie di bisogni primari che nella società moderna vengono soddisfatti facilmente, spesso da altri (pensiamo banalmente al bisogno di procacciarsi il cibo). Una volta che i bisogni primari sono dati per scontati, la preoccupazione diventa quella di essere apprezzati, brillanti, piacevoli, realizzati, che è quello che si chiede anche ai giovani e che innesca una competizione più feroce di qualunque altra. Questo spiega anche perché l’hikikomori si è sviluppato in Giappone prima che in altri posti: il Giappone è una delle società economicamente più sviluppate e tra le più competitive al mondo, con un tasso di disoccupazione bassissimo. Non si tratta di non riuscire a trovare lavoro, ma piuttosto il proprio posto nel mondo.

Hikikomori Italia: un valido supporto per le famiglie

Marco Crepaldi ha fondato anche una associazione nazionale – “Hikikomori Italia” – di cui è anche presidente: l’obiettivo è quello di informare, sensibilizzare ad una riflessione critica, cercando di capire – non curare – il problema senza stigmatizzarlo o giudicare. È diventato un punto di riferimento importante e di confronto, sia per i ragazzi che si sentono vicini all’hikikomori ma soprattutto per i genitori che hanno un figlio che sta affrontando questa condizione così particolare.

Per i genitori non è facile fronteggiare l’evidenza di un figlio che ha fatto una scelta così estrema. Ci sono cose che possono aiutare, altre sicuramente da evitare. Essere onesti, trasparenti, non giudicanti, ma aperti al dialogo, all’ascolto è certamente la cosa più importante: rappresentare un porto sicuro, dove non c’è pressione ma solo comprensione, confronto, ovviamente, ma non conflitto.

Non bisogna mai dimenticare che l’obiettivo primario deve essere il benessere del ragazzo, che come prima cosa deve essere aiutato a stare meglio e non a recuperare subito la frequenza scolastica o la carriera sociale. Con questo obiettivo, è utile tentare di coinvolgerli in attività che spezzino la routine, in modo da creare una discontinuità nell’isolamento, cercando di evitare sia atteggiamenti iperprotettivi che coercitivi.

Paola Greco

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