Wise Society : Rifugiati climatici: le vittime del global warming

Rifugiati climatici: le vittime del global warming

di Lucia Fino
4 Febbraio 2025

Il diritto internazionale non riconosce lo status di rifugiato connesso alle migrazioni dovute al clima che cambia, che rende ormai invivibili alcune aree del Pianeta. Approfondiamo l'argomento

In un mondo sempre più colpito dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, emerge una nuova crisi umanitaria, quella dei rifugiati climatici. Non riconosciuti formalmente dal diritto internazionale (lo status di rifugiato climatico ancora non esiste), queste persone si trovano costrette ad abbandonare le loro case a causa di eventi climatici estremi come uragani, siccità, alluvioni e l’inesorabile innalzamento del livello del mare. Un fenomeno silenzioso ma inarrestabile che continua a disegnare nuove rotte migratorie e che finisce per destabilizzare profondamente intere aree del Pianeta. A risentirne in modo drammatico non sono solo le aree interessate direttamente dal global warming e da cui partono i migranti climatici ma anche le comunità che li accolgono, spesso già colpite da instabilità economica, dove l’afflusso di nuove persone può creare tensioni sociali, crisi degli equilibri geopolitici e competizione per risorse limitate. Approfondiamo l’argomento.

Illustrazione sui rifugiati climatici

Foto Shutterstock

Chi sono i rifugiati climatici?

Ma chi sono i rifugiati climatici? La definizione di migranti climatici comprende le persone costrette a migrare, a spostarsi dai loro Paesi d’origine, per gli effetti devastanti del cambiamento climatico, come l’avanzare del deserto, l’erosione delle coste e i cicloni sempre più violenti. Queste vittime del global warming non sono un gruppo omogeneo: provengono da contesti diversi.

La maggior parte dei migranti climatici vive in aree rurali che dipendono fortemente dall’agricoltura e dall’accesso a risorse naturali, come l’acqua (questo accade per esempio soprattutto in Africa). Quando queste risorse si esauriscono o si impoveriscono per i cambiamenti climatici, emigrare diventa l’unica opzione possibile. Altri invece abitano in isole e zone costiere minacciate dall’erosione e dall’innalzamento del livello del mare.

Anche le città, però, stanno diventando focolai di crisi: sotto la spinta della migrazione climatica dalle aree interne le periferie già congestionate e prive di infrastrutture adeguate si riempiono di nuovi arrivati, creando condizioni di vita insostenibili. Bambini, anziani e donne incinte sono i più vulnerabili: per loro, la perdita di una casa non è solo una questione logistica, ma una minaccia diretta alla sopravvivenza.

La legge non riconosce i rifugiati climatici

A differenza di chi fugge da guerre o persecuzioni, chi fugge dai cambiamenti climatici non rientra nella definizione di “rifugiato” stabilita dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Questo priva i rifugiati climatici di diritti fondamentali come l’asilo. Eppure si tratta di un fenomeno di dimensioni enormi: entro il 2050, le Nazioni Unite stimano che fino a 200 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare per ragioni climatiche. La terminologia stessa è dibattuta: mentre alcuni parlano di “rifugiati”, altri preferiscono parlare di “migranti climatici” per sottolineare che molti si spostano all’interno dei loro stessi paesi, senza attraversare confini internazionali (come accade nel Sahel).

Siccità in africa

Foto Shutterstock

Le aree più colpite dalla migrazione climatica

Gli effetti del cambiamento climatico non sono distribuiti uniformemente e colpiscono soprattutto le regioni già esposte, fragili e povere. Eccone alcune.

  • Sud-Est asiatico: Bangladesh, Vietnam e Indonesia stanno affrontando un innalzamento del livello del mare che minaccia città costiere e terreni coltivati. Il caso del Bangladesh, in particolare, è emblematico: con migliaia di chilometri quadrati di territorio a rischio, milioni di persone potrebbero essere costrette a trasferirsi.
  • Africa sub-sahariana: la desertificazione e la scarsità d’acqua stanno spingendo intere comunità a migrare. La regione del Sahel, che comprende paesi come Mali, Niger e Chad, già molto difficile e ostile per sua natura, sta diventando sempre più inospitale, con terreni agricoli ormai inutilizzabili.
  • Pacifico: piccole nazioni insulari, come Kiribati e Tuvalu, rischiano di scomparire sott’acqua a causa dell’innalzamento del livello del mare. Alcune di queste comunità hanno già iniziato trasferimenti organizzati verso paesi vicini, come la Nuova Zelanda.
  • America Latina: la siccità e la perdita dei raccolti in paesi come il Guatemala, il Messico e l’Honduras aggravano le crisi sociali, spingendo molte persone verso il confine con gli Stati Uniti.

Le possibili soluzioni al problema dei rifugiati climatici

Affrontare la questione dei rifugiati climatici richiede un mix di strategie che includano mitigazione del problema, adattamento delle popolazioni locali e protezione legale internazionale. Tuttavia, ogni soluzione presenta vantaggi e svantaggi e tutte presentano incognite molto pesanti. Il riconoscimento giuridico dello status di rifugiato climatico, che finora non esiste garantirebbe protezione legale e accesso ai diritti fondamentali. Alcuni governi però temono che questo possa in qualche modo incentivare migrazioni di massa e mettere sotto pressione i sistemi di accoglienza.

Un’altra soluzione potrebbe essere investire in infrastrutture in loco come barriere contro il mare o riforestazione in modo tale da mitigare e prevenire gli effetti più catastrofici dei cambiamenti climatici. Molte comunità però, nei Paesi più poveri, non dispongono delle risorse necessarie per attuare queste misure in tempi ragionevoli.

Qualcuno è arrivato a parlare perfino di migrazione pianificata ovvero della possibilità di trasferire in modo organizzato, quando serve, le comunità a rischio. Questo potrebbe aiutare a ridurre il trauma di dover abbandonare le proprie terre di origine e rendere più facile ricominciare una nuova vita in aree sicure. È però un processo costoso, possibile solo per gruppi ristretti e che spesso incontra profonde resistenze politiche e sociali.

Anche le cosiddette Nature-Based Solution (NBS) possono servire per arginare il fenomeno delle migrazioni dovute al clima avverso. come il ripristino degli ecosistemi naturali possono aumentare la resilienza delle comunità. Per esempio, la riforestazione mirata può prevenire l’erosione del suolo e migliorare la sicurezza alimentare, mentre infrastrutture verdi come tetti vegetali e parchi urbani possono ridurre l’effetto “isola di calore” nelle città.

Nello stesso tempo può essere utile agire per un cambiamento costruttivo nei Paesi più colpiti: migliorando l’accesso all’istruzione e alle risorse economiche delle comunità vulnerabili e dando loro gli strumenti per adattarsi, cambiando per esempio colture e utilizzando metodi agricoli più moderni, le popolazioni locali non sarebbero più costrette ad abbandonare le proprie terre.

Il problema sono i tempi, inevitabilmente lunghi: le NBS richiedono anni per produrre effetti e possono non essere sufficienti in aree già gravemente colpite così come non sono per niente facili da introdurre cambiamenti radicali nel modo di vivere e lavorare delle popolazioni coinvolte.

Alluvione in Bandgladesh

Foto Shutterstock

Storie drammatiche di migrazione climatica

Le storie di chi affronta questa crisi mettono in luce la sua drammaticità: ecco alcuni esempi tragici di rifugiati climatici degli ultimi anni.

  • Gardi Sudub, Panama: la comunità Guna ha iniziato a lasciare l’isola su cui viveva a causa dell’innalzamento del mare. Oltre 300 famiglie si sono dovute spostare sulla terraferma, in prefabbricati, abbandonando tutto. Molte isole dell’arcipelago, anche abitate, sono a rischio.
  • Mozambico: i cicloni Idai e Kenneth nel 2019 hanno devastato intere regioni, causando centinaia di morti e costringendo migliaia di persone a spostarsi, anche a causa del terreno compromesso in profondità dalle inondazioni.
  • Siria: sebbene il conflitto sia la causa principale della crisi dei rifugiati siriani, la grave siccità tra il 2006 e il 2011 ha contribuito a destabilizzare il paese e a spingere le persone verso le città, alimentando tensioni politiche e sociali. Anche in Iraq la desertificazione ha messo in crisi l’allevamento e l’agricoltura costringendo molte popolazione a spostarsi.

Insieme per un futuro migliore

La crisi climatica e il fenomeno drammatico della migrazione che ne consegue richiede un approccio globale, che riesca a conciliare le azioni contro il cambiamento climatico con le politiche per proteggere chi ne subisce le conseguenze più gravi. Riconoscere il diritto delle popolazioni più colpite a vivere in sicurezza non è solo una questione di giustizia, ma un passo cruciale per costruire un mondo più resiliente. Il destino dei rifugiati climatici riguarda anche noi: affrontare la sfida del “global warming” e del suo impatto sulla sopravvivenza dei popoli più fragili e svantaggiati significa pensare a un futuro sostenibile per tutti.

Lucia Fino

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