Wise Society : Siamo eremiti postmoderni: libri da leggere sulle derive del mondo contemporaneo

Siamo eremiti postmoderni: libri da leggere sulle derive del mondo contemporaneo

di Carmine Castoro*
22 Aprile 2021

Viviamo nell'epoca del capitalocene e l'uomo contemporaneo è un eremita postmoderno e iperconnesso senza alcuna guida. Carmine Castoro ci illustra i libri da leggere sull'argomento, per capire la nostra contemporaneità

C’è stata una fase storica in cui la fiducia fra simili, i patti di solidarietà, la tenuta etica di un Paese e l’onnipresenza benevola dello Stato hanno rappresentato le coordinate inaggirabili, i giunti cardanici di una macchina pubblica che ha cercato in tutti i modi di correggere l’iniquità del sistema economico globalizzato con il recupero della uguaglianza, della giustizia distributiva, della fratellanza. No, non siamo in qualche utopia campanelliana modello Città del Sole, ma in un periodo realmente esistito, indicativamente collocato fra gli anni ’40 post-bellici e i primi anni ’70 del secolo scorso, oggetto di una splendida analisi sociologica e storiografica di Tony Judt, eminente figura accademica del Novecento, forse il suo vero lascito morale per il mondo sfibrato in cui annaspiamo.

Guasto è il mondo di Tony Judt

Foto Laterza

Il suo Guasto è il mondo (Laterza) non a caso comincia proprio con una serie di diagrammi che fanno capire come la non equità del mercato e dei sistemi industriali provochi a cascata una serie di dinamiche psicosociali gravissime: devianza, delinquenza, malattia mentale, ospedalizzazione, miseria diffusa, insicurezza, suicidi.

Adottare linee guida interventiste piuttosto che lasciafariste, implementare sussidi, istruzione statale, regolamentazioni del commercio, varare politiche di sostegno, incoraggiare la cultura, promuovere la formazione, furono i presupposti dell’American way of life, del “miracolo economico” tedesco, dei cosiddetti Trente Glorieuses francesi, sicché la socialdemocrazia cristallizzò la sua bolla confortevole intorno alla quotidianità di milioni di persone che, dopo le nequizie e gli orrori delle dittature, legittimamente ambivano a benessere e forza popolare.

Democrazia a scadenza

Il titolo originario dell’opera Ill fares the land curiosamente apre il suo registro semantico, se fare lo consideriamo sostantivo e non verbo. Ne vien fuori una sorta di cibo andato a male, biglietto scaduto, viaggio sbagliato, lotteria perdente. E sono tutte allegorie e risonanze che toccano il declino che l’Occidente ha imboccato – nell’ottima ricostruzione di Judt – subito dopo il travolgente Sessantotto.

L’auto-imbozzolamento della sinistra, la sclerotizzazione burocratico-partitica (a tutt’oggi tremendamente vigente) dei suoi propositi di palingenesi rivoluzionaria, il custodialismo e l’intrusione nella privacy dei cittadini, e soprattutto il prevalere delle cerniere “identitarie”, in chiave personale e di gruppo, rispetto al sacrificio del singolo in nome dell’espressione armoniosa della comunità di appartenenza, generarono una totale inversione di tendenza. L’enfasi sull’ethos collettivista cedette il passo al trionfo di ego slacciati, concorrenziali e – oggi diremmo – iperconnessi, e, dice Judt, abbiamo assistito a una “riduzione della “società” a una sottile membrana di interazioni fra singoli individui”, a una vita che “per molte persone è tornata a essere solitaria, povera e non poco odiosa”, in nome di quella “polverosa disgregazione” del tessuto connettivo di una nazione che già Edmund Burke profetizzava a margine delle sue critiche alla Parigi giacobina di fine Settecento.

Mai come oggi assistiamo a quell’economicismo” delle merci, delle immagini e del consenso permanente che Judt giustamente riporta a strutture e criteri storici, a un qualcosa che non è “intrinseco all’essere umano” e che però, nel tempo, ha indotto quella “disabilità discorsiva” che ci impedisce di superare il Capitalismo furente e oppressivo, anche solo di renderlo oggetto di una discutibilità antagonista e audace. Senza universalismi, senza antropologie alte, senza la luce di scopi comuni che scavalchino i meri “sentimenti nascenti da interessi pecuniari” – per dirla alla Stuart Mill -, e senza più un vero Stato che assurga nuovamente al ruolo di “istituzione intermedia primaria”, come non sentirsi allora – per tornare al titolo originario di Judt – un passeggero smarrito verso una destinazione sconosciuta, il partecipante disilluso di un sorteggio pilotato, il consumatore di un carne flaccida e smangiucchiata dai vermi?

Lo scarto che fa fiorire

Il “guasto” come categoria di uno spirito irretito, di un sistema imploso, di una società svuotata di senso e di legami, di una comunicazione sparpagliata fra mille riverberi social e farneticazioni di leadership auto-conservative.

Il Mal sano, Michel Serres

Immagine Il Melangolo

E dire che il grande filosofo francese Michel Serres considerava ne Il mal sano (Melangolo) tutto quanto è scarto, deiettivo, livido e cruento, non profumato o commestibile insomma, come il sale della fondazione del “noi” e come delimitazione necessaria degli spazi abitativi e affettivi. L’animale circoscrive il suo habitat con le urine, i primi coloni usavano il concime delle loro coltivazioni per isolare anche da un punto di vista catastale terreno e proprietà, templi e città avevano come geometria catacombale quella delle ossa degli antenati e del sangue marcio versato in battaglia dal nemico, il grembo di una donna era marcato dallo sperma dello ius primae noctis.

Ma poi che succede progressivamente? La dimensione biologica, agreste, mitico-patriottica o genetica cede il passo alla sacertà della religione cristiana che predica un dio senza luogo e senza dimora, dal letame si passa all’alato, e da questo a quella che Serres definisce come “moderazione” o “ominescenza dolce”: una civiltà delineata non più da zolle e tombe, ma da tracciati semiotici, da segni, rumori, pattume mediatico, pubblicità, alluvioni iconografiche, del tutto coevi e complanari agli scarichi e alle fecce delle fabbriche. Dunque, è il mondo nella sua interezza oggi ad essere ammassato di residui e inanità, di miasmi e smog, di superfici deturpate e bellezza opacizzata. Il guasto non è più un guano che fa germogliare vita, ma un guaio che mette a repentaglio le sue stesse basiche fioriture, naturali e culturali, rispetto al quale cerchiamo un guado, una definitiva non-guerra.

A scuola di disastri

Ecco che allora ci troviamo in uno snodo nevralgico che un movimento sociologico, francofono in particolar modo, ha definito Collassologia, titolo omologo a quello di un interessantissimo pamphlet di Jacopo Rasmi (Asterios editore).

Collassologia di Jacopo Rasmi

Immagine Asterios

“Essa pare incarnare e radicalizzare un sentimento diffuso di esaurimento ed insostenibilità del sistema produttivo e geo-politico moderno e occidentale che si condensa nella prospettiva di un crollo imminente, ineluttabile e trasversale”, ci dice lo studioso d’Oltralpe. Tacciata di pseudo-scienza, di vocazione naif, di sapore dolciastro new age, o di allarmismo in stile kolossal di Spielberg, la collassologia mette comunque il dito nella piaga di quell’”estrattivismo” che è l’hardware dell’economia contemporanea: dragare risorse attingendole diuturnamente, violentemente da madre Terra senza la minima apprensione per il loro ricambio fisiologico e per i rischi distruttivi che potrebbero derivare sulla nostra ecosfera. Rischi che vengono annunciati, secondo un terribile ma non improbabile quadrifarmaco del Veleno, come simultanei, generalizzati, frutto di interdipendenze interne, e innescate da negligenze volontarie o involontarie. Più che di effondrement (accasciamento) si dovrebbe parlare di délitement – rimarca Rasmi -, ovvero di slittamenti, disgregazioni, dispersioni, di “processi erosivi e nocivi” che portano non a un crollo istantaneo e generalizzato, ma a faglie, crepe, fratture, punti critici di una società impostata sempre più come Capitalocene, ovvero Antropocene del Capitale, tracotanza dell’Uomo sugli equilibri della natura e delle biodiversità in nome del dio Profitto.

Fra apocalisse e burlesque

Don De Lillo, Il Silenzio

Immagine Einaudi

Una smania sopraffattoria che ha anche le sue trasfigurazioni finzionali – su cui Rasmi si sofferma –, che virano dall’acqua ragia delle apocalissi col timer già avviato agli effetti burlesque delle ironie non scevre da intelligenza operativa. Il Don DeLillo di Il silenzio (Einaudi) contro il Giacomo Papi di Happydemia (Feltrinelli), potremmo dire.

Nella mini-storia dell’autore newyorkese, un giorno del 2022, si assiste a una silenziosa rivolta delle reti mondiali integrate: un gigantesco blackout abbatte motori, televisori, lampioni, console di aerei, torri di comando, approvvigionamenti, e dunque tutto quel guscio pneumatico e securizzante che passa dal trovare sempre un interruttore di casa disponibile al trascorrere una sera in allegria di fronte alla finale del Super Bowl. Ma adesso, se tutto è notte artificiale, se le stelle si vendicano sui watts, ognuno è costretto ad attendere, elucubrare, parlare col vicino, avere visioni, ricordare, a nomadizzare il proprio ego fino a pochi minuti fa fisso su display, schermi e monitor. L’uomo nudo, senza logiche e senza abitudini, assiso come un eremita postmoderno su un megalite elettronico ormai esausto.

Happydemia di Giacopo Papi

Foto Feltrinelli

Papi, invece, si candida, in pieno Covid, ad essere, col suo gradevole e tagliente sarcasmo (seppur la trama sia tenue e un po’ di corto respiro), corifeo di quel surrealismo che non è più l’”oltre” del reale, ma suo calco assurdo, suo dogmatismo interno, ineffabile e presuntuoso, e mai come in piena pandemia, ci descrive una spirale disastrosa che puzza di decreti, stigmi, impedimenti, miseria e corruzione, là dove i baci sono visti con sospetto e il vero delivery è quello degli psicofarmaci ordinati per sedare una popolazione che non ne può più di angosce e privazioni, di cui si vuole colonizzare finanche il sonno.

Insomma, il guasto è narrabile ma inevitabile? Le precarietà, le fragilità, l’insipienza gestionale delle materie prime e dei territori da parte di organizzazioni rapaci e plusvalenti possono essere evitate o sovreccitano il nostro livello di stress con le ombre sinistre della shock economy?

Judt parla di un ritorno allo zoccolo costituzionale e allo Stato sociale di mercato in nome di quel riformismo keynesiano che suturò tante piaghe recessive. Serres propone un Nuovo Contratto che ci veda fratelli e non duellanti col Cosmo. Rasmi una “ginnastica” comportamentale che non ceda ad una egemonia della paura e del ricatto monetario, molteplice e biforcata. Ovvero, essere collassonauti, naviganti nel mare tempestoso delle mutazioni ambientali e del mutismo del pensiero. A caccia di un approdo dove finalmente riaccendere il fuoco di una “casa”.

*Carmine Castoro, scrittore e filosofo della comunicazione

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Carmine Castoro

Scrittore e filosofo della comunicazione