Cos'è la paura e come agisce? Come se ne nutre la società e perché il mondo rischia di diventare una panic room? Lasciamo la parola al filosofo Carmine Castoro e alla sua fenomenologia della paura, indagata attraverso i libri e i film che affrontano il tema
La decisione di uno dei primi genocidi della storia fu presa, con ogni probabilità, dagli ateniesi che avevano deciso di passare a fil di spada e ridurre in schiavitù gli abitanti della colonia ribelle di Mitilene. Il demagogo Cleone sostenne che con una vendetta di tal fatta Atene sarebbe stata oggetto del disprezzo e della reazione violenta di altre comunità circonvicine, e si sarebbe creata una tragica scia di sangue. Ancor più convincente un suo collega, Diodoto, che, al posto di mantenere populisticamente il livello di spavento nella popolazione, enunciò con grande veemenza che Atene non si sarebbe dovuta macchiare di alcuna aggressione perché nessuna ombra si allungava sulla sua potenza, e la sua lealtà verso gli alleati era il valore di gran lunga più importante da proteggere in quella contingenza. Per fortuna la nave con i combattenti pronta alla repressione cruentissima trovò bonaccia, e il comando di stoppare le operazioni la raggiunse in tempo.
Parola di Tucidide, e parola della filosofa Martha Nussbaum che cita l’aneddoto ne La monarchia della paura (il Mulino), perfetto incastro di psicanalisi, sociologia e scienze politiche dove si sofferma su come fantasmi di morte e annientamento imminenti possano nuocere o giovare a chi percepisce i problemi dal basso, e alle leadership che ne devono offrire la corretta organizzazione.
La paura è un dato arcaico – ci dice l’autrice -, dalla neonatalità allo svezzamento del bimbo, dalla rassicurazione del seno materno e del suo nutrimento all’impatto autonomo con l’ambiente circostante e le sue tremebonde convulsioni. Siamo immersi da sempre in un mondo da cui non siamo garantiti con gli istinti degli animali, e solo il linguaggio, la cultura e una pacifica convivenza possono mettere tra noi e le trappole dell’esistenza i giusti cuscinetti, gli equi ordinamenti, le parole più sagaci per contenere una angoscia primordiale. Ma se seguiamo gli insegnamenti di Aristotele per diventare un maestro di pubblica eloquenza, e descriviamo un evento improvviso come incombente, fuori controllo e decisivo per il prosieguo della vita di tutti, e ci candidiamo come provvidenziali risolutori della febbre mentale che attanaglia la folla, beh allora spacciamo consenso e propaganda per una finta affidabilità.
“Le emozioni possono destabilizzare una comunità e frammentarla – ammonisce la docente della Università di Chicago -, oppure possono produrre una migliore cooperazione e uno sforzo più energico verso la giustizia”. Sferzare l’agorà e le sensibilità più intime di tutti può essere il fine di un dittatore che con la frusta ottiene obbedienza, o anche il cancro di una democrazia che perviene al privilegio delle élite al governo immolando l’adesione spontanea di ognuno col simile e la deliberazione mediata dalle tutele giuridiche e parlamentari.
Insomma, la paura, dalle società feudali e agricole o transumanti, non ha più un oggetto specifico (i guerrieri avversari, i predoni, il clima sfavorevole, le razzie etc.) e non ha più un orizzonte significante e causativo, celeste o terreno che sia, Dio o il maligno di turno. Nella contemporaneità, al contrario, essa dipende da fattori anonimizzati come il Progresso, il Mercato, i sentiment spettacolarizzati, e le istituzioni arretrano, per non dire corrugano o lasciano estinguere miserabilmente, il loro mandato rassicurante, giudizioso, laborioso di intervento sulle popolazioni.
La conseguenza è una imprevedibilità sincopata, l’incognita oppressiva, il cosmo trasformato in una gigantesca panic room; e allora la deterrenza psico-sanitaria, il dirigismo degli “esperti”, lo tsunami televisivo, l’implosione quasi secessionista di caste e governance, prendono inesorabilmente il sopravvento.
Come abbiamo visto, e purtroppo continuiamo a vedere in piena fase-Covid, si può finire dentro una sorta di media-dungeon dove subiamo schiaffoni senza balsamo sui nostri cuori da parte di un Potere sibillino e sibilante, circonfuso dal mistero e che acconsente a una versione nightmare della realtà, che cerca argini e ripari per il Bene pubblico, ma infierisce su tutto e tortura mentalmente il popolo con un defatigante brain washing, che si ritaglia uno spazio immenso di manovra, di scrutinio e sequestro della parola e delle opzioni, per auto-determinarsi, auto-replicarsi, prolungandosi nella bava intrecciata della sua ragnatela.
Finiamo allora in quella fase “post-postmoderna”, come sottolinea il filosofo Emiliano Bazzanella in questo suo Filosofie della paura (Asterios), pregevole pamphlet di grande densità concettuale e leggerezza divulgativa, insieme, dove ci viene spiegato che l’uomo, cessate, contratte o mistificate le grandi narrazioni del XX secolo, è preso da un micidiale forcipe tipico del tardo Capitalismo.
Il quale opererebbe direttamente sull’esorcismo dell’Altro, sull’evitamento di traumi e inclinazioni pericolose del pathos generale, creando intorno al soggetto una cinturazione di dispositivi di prevenzione e sicurezza che ci danno comodità e prontezza di intervento in caso di bisogno, ma contemporaneamente ci soffocano, ci schematizzano, ci assorbono in una nebulosa velenosa. Basti guardare ciò che avviene nella matrioska disarmante che incapsula all’unisono tv trash, abissi del web, odio sui social, deregulation del mercato, politica che si fa viltà e clownerie, slittamento dei legami affettivi.
La paura, insomma, esce dalla porta e rientra dalla finestra. Viene inoculata in maniera dosata, calibrata, anche come intrattenimento, mostruosità additata, solleticamento di novità, crescita degli stress, stigmatizzazione di nuovi “invasori” del nostro habitat, ma quello che Bazzanella definisce come “epidemia dell’immaginario”, cioè la libertà degli stili e delle scelte, dall’alto e dal basso, non basta a cauterizzare proprio tutto, anzi, alla fine le stesse tante medicine iniettate nel tessuto sociale lo strangolano di strettoie, controlli, limiti, tracciamenti, policy, osservanze, ritualità, doping.
E la paura riemerge come impossibilità di assuefarsi alle tante gabbie d’acciaio che blindano il nostro quotidiano. “La paura è all’origine della costruzione di senso, ma il senso diviene causa della paura, in un circolo che non possiamo non definire tendenzialmente vizioso”, dice lo studioso. Insomma, il teorema della contemporaneità è: ti inietto shock per agitarti, drizzare le tue antenne, strapparti alla tua stanzialità, poi lenisco e differisco ogni tua ambascia candidandomi a problem solver sempre a disposizione, ma alla fine ti metto sotto chiave simbolicamente, e ti faccio sentire un topolino nella ruota, velocissimo e ipervitaminico, ma incapace di uscire dal perimetro costruito intorno a esso.
Finanche il genere letterario, e oggi televisivo e cinematografico in massima audience, tutto concentrato su delitti ed efferatezze metropolitane, fa in parte da lucchetto delle nostre trepidazioni. L’elemento chiave di thriller e gialli classici è quello che Freud chiamava il “perturbante”, l’unheimlich, che vuol dire l’estraneo, il senza-patria, il fuori, ma anche ciò che di perverso è insito nel familiare, nelle nostre certezze, in quelli che “sembrano” valori condivisi.
Pur in una scrittura pallida, con poche vere vertigini, e con un finale che scimmiotta almeno due, tre film molto famosi degli ultimi anni, Psychokiller di Paolo Roversi (SEM) non propone sin dall’inizio l’idea che il maggiore sospettato sia proprio il commissario Diego Ruiz al quale, chissà perché, un maniaco assassino manda missive ad personam ad ogni nuova vittima? E Natale con delitto di Mavis Doriel Hay (Lindau) non è il classico Cluedo anglosassone alla Agatha Christie dove chi ha sparato al solito vecchio avido e arrogante patriarca di una ricca famiglia va cercato fra i rancorosi, indebitati e ipocriti figli e nipoti che certo non grondavano amore verso chi dormiva su centinaia di migliaia di sterline? Certo, alla fine l’investigatore di turno appiana ogni dislivello, ricuce ogni strappo, riporta l’ordine razionale delle cose, ma non lasciamo inevaso quell’elemento psicotico, difforme, extraterritoriale e scandaloso che ogni buon mistery ci offre.
Questa esca di paura (“passione per il reale”, dice Bazzanella) non deve diventare ira, disgusto e invidia, ovvero i tre assi di una trigonometria dell’espulsione del diverso e del suo sterminio come portatore di risorse, che la Nussbaum evidenzia come una sorta di “economia retributiva”, della serie: ti distruggo per appagare narcisisticamente l’offesa subita. Deve invece diventare linfa di una “scuola della speranza” dove cultura della singolarità, pensiero critico, solidarietà e zelo raziocinante facciano crescere il vivaio del rispetto e di una rinnovata comprensione fra simili fragili e imperfetti. Senza autoproclamazioni e senza ghettizzazioni.
Come si possa affinare così tanto e così bene la nostra coscienza in un mondo butterato di ignoranza, modelli diseducativi, pornografie del dolore, reality show e reti web dove l’ego e la stupidità trionfano in totale assenza di un seppur tremolante anelito di sapere, è un libro tutto ancora da scrivere.
Carmine Castoro, scrittore e filosofo della comunicazione