Lo storico ambientalista americano Bill McKibben, organizzatore del recente Global Work Party, è a capo di un vasto movimento che vuol coinvolgere più persone possibili sul tema del riscaldamento globale. E nel suo nuovo libro, "Terraa" ci avverte che abbiamo poco tempo per fare quello che è necessario: fermare una crescita dissennata e puntare su nuovi valori. Etici
Nello scorso mese di ottobre, in 188 paesi del mondo, decine di migliaia di persone si sono riunite per partecipare a un evento ambientale unico nel suo genere: il Global Work Party: hanno piantato alberi, installato pannelli solari, dato vita a orti sociali, e tanto altro ancora. La Cnn (la più autorevole emittente televisiva statunitense) l’ha definita la più ampia manifestazione politica mai realizzata in una sola giornata. La mente che ha organizzato questo appuntamento globale è quella di Bill McKibben, cinquant’anni, un’icona dell’ambientalismo americano che già vent’anni fa aveva denunciato ne La fine della Natura quel fenomeno che allora si chiamava “effetto serra”. Oggi McKibben è a capo di “350.org”, un progetto che prende il nome dalla concentrazione massima di CO2 nell’atmosfera da non superare per evitare l’innalzamento della temperatura: 350, appunto. Oggi siamo già oltre, alla pericolosa quota di 392. La convinzione di McKibben è che solo una massa critica di persone possa innescare il cambiamento necessario ad abbassare le emissioni e a salvare il pianeta. Il suo nuovo saggio, appena pubblicato in Italia, si intitola Terraa (Edizioni Ambiente). È un’analisi molto dura del nostro presente, ma anche un invito alla mobilitazione e una ricerca di soluzioni per sopravvivere sul pianeta.
Cosa significa il titolo Terraa (il titolo originale è Eaarth)?
Il titolo è volutamente strano, perché volevo far capire immediatamente che oggi abitiamo un pianeta nuovo, diverso, che non è più la nostra Terra. Gli ho dato un nome differente: Terraa, appunto. Il cambiamento è già avvenuto, è sotto i nostri occhi, basti pensare alle siccità e agli incendi che hanno colpito la Russia la scorsa estate e agli alluvioni in Pakistan.
E’ possibile invertire la rotta?
Una parte importante del mio libro riguarda l’economia e la finanza, in particolare la loro dipendenza dai combustibili fossili: i sistemi economici che sono stati costruiti dal capitalismo intorno a queste fonti di energia, ora sono diventati troppo grandi e centralizzati. Dobbiamo cominciare a costruire modelli economici più piccoli, diffusi e collegati tra loro. Come per esempio propone di fare Slow Food per l’agricoltura.
Modificare un sistema economico sembra un’impresa davvero impossibile…
È una battaglia politica che va combattuta, è la più importante. Non è possibile intervenire sul global warming se non si parte dalle fondamenta, cioè dall’economia del petrolio e del carbone. Le grandi compagnie non vogliono interferenze, ma è lì che bisogna affondare il colpo. Per esempio fissando un prezzo molto più alto del petrolio, in modo da rendere ancor più competitive le energie alternative. Sole, vento e acqua sono disponibili ovunque, grazie ad essi possiamo costruire un’economia diffusa e decentrata, più aperta.
Anche puntando alla decrescita?
Siamo talmente affascinati e condizionati, da sempre, dall’idea di crescere, che per “decrescere” dobbiamo cambiare completamente le categorie del pensiero. Ora che abbiamo sotto gli occhi i limiti fisici, reali, di questa crescita, abbiamo bisogno di nuove abitudini mentali, dobbiamo imparare a concentrarci su altro: qualità e non quantità, stabilità e durata invece di sviluppo continuo.
Come si può spiegare il concetto di decrescita ai Paesi in via di sviluppo, che sono i primi a subire le conseguenze del nostro spreco di risorse? Lei come ha coinvolto i loro cittadini?
Sono appena tornato dalla Cina: stanno sì costruendo molte centrali a carbone, ma la buona notizia è che hanno investito 600 miliardi di dollari nelle rinnovabili solo lo scorso anno, e ora ci sono 250 milioni di abitanti che producono acqua calda con i pannelli solari. È ingiusto che non possano consumare come abbiamo fatto noi per centinaia d’anni, ma devono capire che non ci sono altre opzioni: possono consolarsi pensando che quando l’economia sarà tutta fondata sulle rinnovabili, loro saranno avanti a tutti. “350.org” li ha coinvolti perché la lotta contro il global warming ha bisogno di tutti: se si dà un’occhiata alle foto degli eventi del Global Work Party tra i partecipanti non ci sono soltanto ambientalisti impegnati, ma anche tanta altra gente, compresi poveri e giovanissimi.
Tanti obiettivi, tanti progetti, che però incidono poco sulle classi dirigenti che decidono…
La nostra vittoria non è affatto garantita, e infatti finora abbiamo perso contro il potere. Non potremo fare nulla se non riusciremo a costruire un movimento che sia il più ampio possibile. Siamo ancora agli albori di questa nascita, e purtroppo non c’è più tempo, dobbiamo fare in fretta. Neanche i politici da soli potranno fare qualcosa, nemmeno un presidente illuminato come Obama può opporsi all’industria fossile, da solo. Alcuni governi li abbiamo convinti: in 117, a Copenaghen, hanno firmato un impegno a contenere le emissioni sotto la soglia del fatidico “350”, ma erano i Paesi sbagliati: i più poveri, i più a rischio. Solo se tutti capiranno, le cose cambieranno. È un problema morale di tutti: bisogna agire.