Francesco Iannone e Serena Tellini, architetti e lighting designer, spiegano l’importanza della luce in ogni ambiente, anche come supporto terapeutico
La luce ha un grande valore nella vita di tutti i giorni e può essere di supporto persino nel processo di cura del paziente. Ne sono convinti Francesco Iannone e Serena Tellini, architetti di formazione e lighting designer di professione, titolari dello studio Consuline Architetti Associati, una coppia – da 40 anni – sul lavoro e nella vita, conosciuta e apprezzata nel mondo grazie alla loro competenza e passione. Membri fondatori della Professional Lighting Designers Association (Plda), la più grande e riconosciuta associazione mondiale del settore, hanno firmato lavori prestigiosi in tutto il mondo: tra questi, il master plan per i Giochi olimpici di Pechino, l’illuminazione del circuito di Formula 1 di Shanghai, mostre e capolavori importanti in Italia (Tiziano, Lotto, Bellini), il National Grand Theatre di Pechino.
Ora sono impegnati nel progetto “Il Paese Ritrovato”, a Monza, (a proposito del quale ne parleranno in un convegno il prossimo 12 ottobre in occasione della fiera Illumino Tronica, a Padova) un vero e proprio villaggio dedicato alla cura dei malati di Alzheimer, struttura di portata mondiale per la sua impronta innovativa. Strano a dirsi che il progetto è nato in Italia, che non dimostra di apprezzare la figura del lighting designer, come spiegano i due esperti: «nel nostro Paese la professione è abbastanza inconsueta, in quanto esiste unicamente quella di illuminotecnico, perché il progetto della luce è considerato un aspetto di natura esclusivamente tecnica, come può essere l’impianto dell’aria condizionata. Nel resto del mondo non è così, come pure in Europa, a parte Grecia, Bulgaria, Romania: sono molti, infatti, gli Stati che considerano il progetto della luce come attinente allo spazio umano. Il problema italiano è dato dall’approccio, di natura filosofica: perché il mondo sia davvero sostenibile è necessario comprendere che abbiamo molte strade, e non solo quella tecnica, per arrivare a un risultato, perché le scienze, la stessa fisica quantistica ci stanno offrendo molti spunti per aprirci a una visione verso altri sistemi di intendere la luce non solo come spettro elettromagnetico, ma come una dimensione in rapporto con l’essere umano, che è fatto di percezioni, sensazioni, sentimenti, quindi molto più complesso. Dobbiamo comprendere che l’uomo è al centro della percezione: anzi, l’essere umano è un macro meccanismo sensoriale, con un immaginario collettivo, una serie di elementi comuni e condivisibili, pur essendo individui con caratteristiche peculiari. Nel rapporto con la luce, oggi possiamo contare sui LED, su sistemi di controllo sofisticati, ma ancora facciamo fatica a entrare in un’ottica di progetto sostenibile e “alto”».
Nel caso de Il Paese Ritrovato, che ruolo gioca la luce? Interagisce con il processo di cura?
La cura attiene al campo medico: la luce certamente è di supporto. Su quale sia questo supporto, possiamo dire che in questo caso abbiamo attuato una piccola rivoluzione, pensando che si era partiti con un capitolato prefissato, come nei progetti standard, e siamo arrivati a concepire, insieme a medici, progettisti, costruttori un’idea diversa da quello che si assiste solitamente negli altri ospedali: siamo riusciti a praticare una strada alternativa, pur rispondendo alle norme. Tutto questo per far sì che gli ambienti si adattino ai singoli ospiti. Anche la luce, naturalmente, rientra in questo fine adattivo. Facciamo parte di un grande gruppo di esperti: del colore, del suono, cognitivi e olfattivi, di raccolta dati, delle nuove tecnologie Internet of Things. L’obiettivo che vogliamo raggiungere è tracciare un profilo di ogni paziente, anche luminoso e riproposto anche grazie alle soluzioni tecnologiche oggi esistenti. È una sfida che dobbiamo accettare, affrontare e vincere. È importante riuscirci, per evitare quello shock che ognuno di noi vive lasciando il suo ambito domestico cui è legato anche per motivi affettivi per ritrovarsi in uno estraneo, specie poi se in ambito ospedaliero, e generico. Nel caso dei malati di Alzheimer questo è particolarmente importante, in quanto il cambiamento traumatico può peggiorare le condizioni del paziente.
La luce può essere di aiuto anche a personalizzare gli spazi di lavoro?
Così come vivono una situazione sfortunata i pazienti ospedalieri, anche coloro che lavorano negli uffici si trovano ad affrontare una situazione di generalizzazione luminosa. Stiamo lavorando anche su questo versante, collaborando per esempio con Cristiana Cutrona, architetto dello studio Revalue, responsabile dello spazio ufficiale del Salone del Mobile A Joyful Sense at Work, proposto nella scorsa edizione. Anche in questo caso abbiamo voluto dimostrare la possibilità adattiva della luce, in orari diversi, con iniziative differenti, stimolando la dimensione conviviale. La luce deve aiutare a vivere meglio, permettendo alle persone di condividere spazi e situazioni, condizioni queste in grado di contribuire a lavorare meglio e rendere di più.
Ma lo spazio condiviso non è in contrasto con la dimensione individuale della luce?
Assolutamente no. Oggi le soluzioni tecnologiche ci consentono di vivere in un ambiente conviviale, a contatto con altri e attraverso congegni elettronici di memorizzazione, la luce si adatta alle singole esigenze. Dobbiamo abituarci a sfruttare le potenzialità che ci vengono offerte per creare ambienti su misura per ognuno di noi.
Quali saranno, a livello tecnologico, le soluzioni che aiuteranno in questo percorso?
Sicuramente l’Internet of Things è indispensabile, ma abbiamo anche bisogno di un’industria di apparecchi d’illuminazione in grado di diversificare i prodotti. Oggi non è ancora così, è segmentata in varie funzioni: invece è necessario che si fonda, ad esempio, l’aspetto funzionale con quello estetico, ma soprattutto che sia utile ad altri settori e campi applicativi. E poi, a livello elettronico, possiamo contare su una varietà davvero ampia di opzioni. Quindi è possibile mettere in campo prodotti semplici e accessibili al mondo dell’architettura, che ancora ha difficoltà ad approcciare le tecnologie connesse alla luce perché incomprensibili e che richiedono figure professionali in grado di “tradurre” le funzioni. C’è bisogno di interdisciplinarietà e di diversificazione in tutti i campi.
La concezione di questo tipo di apparecchi luminosi fa pensare a un determinato target di fruitori, agiati. È così?
Non è così, anzi la rivoluzione parte dal basso. L’esempio è Ikea, anticipatore spesso di tendenze ed esigenze. Oggi sta distribuendo lampadine smart, controllabili con lo smartphone. Il problema semmai è dato dai grandi fornitori, che oppongono resistenza al cambiamento, per puri interessi economici. E questo limite lo si traduce anche nelle grandi città.
A proposito delle città, specie quelle italiane: come è possibile coniugare luce sostenibile e attraente?
Nelle aree urbane assistiamo a un problema di spreco luminoso, con luci accese giorno e notte senza alcun senso. Basterebbe installare un sensore di movimento a debita distanza perché i lampioni si attivino, riducendosi drasticamente i quantitativi luminosi nei momenti d’inattività. Nelle città si assiste poi anche al problema della luce anti estetica: l’arrivo del LED, installati senza criterio, ha portato a delle tonalità decisamente fredde e indifferenziate, una luce percepita come distruggitrice della memoria storica luminosa di determinati luoghi. Basterebbe attuare un progetto di lighting design serio e non semplicemente ridursi ad affidare la gestione alle aziende che forniscono l’energia elettrica, il cui obiettivo esclusivo è il risparmio energetico ottenuto in modo scriteriato.
Invece si può ottenere efficienza e un’illuminazione piacevole: è quello che abbiamo fatto, per esempio, nei giochi olimpici di Pechino. L’obiettivo che ci eravamo posti era far sognare tutti gli spettatori presenti alla manifestazione, appartenenti a Paesi, a culture, a modi di vivere differenti. E ancora: vent’anni fa, ad Alingsas, una piccola città svedese, abbiamo lanciato dei workshop dedicati. Sono solo esempi dimostrativi che la luce sviluppa diversamente una città e ne cambia la percezione. Un po’ come la scenografia teatrale. Ma finché l’Italia concepirà il valore della luce non come fatto percettivo ma come esclusivo uso di servizio a favore dell’illuminazione per i veicoli avremo perso un’occasione. È anche un problema legato all’ambito normativo, a livello europeo, che si concentra spesso sul risparmio, ma in realtà la città ha bisogno di ben altro.
Quali sono gli elementi principali perché la luce sia emozione?
Deve essere dinamica e flessibile alle esigenze. Prendiamo un esempio dal mondo della natura: se passeggiamo in un sentiero nel bosco, la luce che percepiamo induce al benessere, al relax; consideriamo ora lo stesso paesaggio, ma con alberi improvvisamente spogli, quindi con molta più luce, ma soprattutto monocromatica e avvolgente. Cambia drasticamente la percezione luminosa. Solo descrivendola, riusciamo a immaginarla senza essere lì. Questo è un patrimonio comune, che deve essere condiviso, anche a livello culturale. Occorre mettere in pratica questa visione per il bene di tutti.