Il professore della Bocconi esperto di assistenza sanitaria spiega come questo debba avvenire tenendo presente delle nuove priorità lasciandosi alle spalle la sanità 1.0
L’innovazione in medicina non è un’utopia: nemmeno in Italia. «Dal 2013 le Regioni hanno un bilancio di spesa sanitaria in pareggio che permette di procedere garantendo anche l’assistenza dovuta alla cittadinanza». Il verbo è quello di Francesco Longo, membro del comitato scientifico del Centro di ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’Università Bocconi, che durante The Future of Science – il convegno organizzato dal 2004 dalla Fondazione Umberto Veronesi a Venezia sul tema: la medicina di precisione – ha fatto presente i nuovi modelli organizzativi richiesti dal sistema sanitario.
Professore, da dove cominciamo?
«Diciotto milioni di italiani soffrono di malattie croniche leggere: come il diabete, l’asma, l’ipertensione e lo scompenso cardiaco. Il 4% della popolazione non è autosufficiente. Mentre la tecnologia ci ha già permesso di ridurre il numero dei ricoveri: 9,5 milioni quelli effettuati nel 2014, il 3,2% in meno rispetto all’anno precedente. Il nostro sistema sanitario deve essere ridisegnato mettendo in cima alla lista queste priorità».
L’emergenza del terzo millennio è rappresentata dall’epidemia di malattie croniche: come la si affronta?
«Occorre reclutare subito i pazienti, favorendo il loro ingresso in un percorso di diagnosi e terapie mirato e assicurandosi che seguano alla lettera le cure. La gestione delle malattie croniche prevede un’integrazione perfetta tra i medici di famiglia, i poliambulatori territoriali e gli ospedali, che devono entrare in gioco nelle situazioni più delicate. Ma purtroppo stiamo parlando di uno scenario che è al momento impercorribile, vista l’attuale struttura degli ospedali italiani».
Di conseguenza il lavoro dei medici ospedalieri è destinato a cambiare: in che modo?
«I confini degli ospedali rimarranno gli stessi, ma il lavoro dei medici dovrà superare le barriere fisiche. Nelle strutture si dovrà puntare all’eccellenza, mentre le cronicità dovranno essere gestite negli ambulatori. Per fare ciò è necessario che gli specialisti contribuiscano alla formazione degli altri colleghi. Qualcuno pone ancora resistenze, ma l’ospedale in cui ci si ricovera per una settimana non esiste più».
Secondo step: le persone non autosufficienti.
«Oggi quando questi pazienti entrano in ospedale, il sistema va in tilt: i costi lievitano, i vantaggi non ci sono e lo specialista perde gli stimoli. Si tratta di persone che richiedono assistenza, non cure cliniche. Ma in Italia la copertura non è omogenea. Se in Lombardia, con dieci milioni di abitanti, ci sono sessantamila posti letto nelle residenze protette, la Sicilia, con la metà degli abitanti, può assistere al massimo tremila anziani. Tutti gli altri ricorrono a una badante o a frequenti ricoveri».
La domanda è d’obbligo: come si riforma il sistema sanitario?
«Primo passo: chiusura e accorpamento del 30% dei presidi ospedalieri che non hanno una casistica minima in grado di garantire la sicurezza. Secondo: conversione di questi edifici in strutture assistenziali. Terzo: integrazione assoluta tra i medici ospedalieri e le realtà ambulatoriali. Non c’è altra via per lasciarsi alle spalle la sanità 1.0».
Si può conciliare l’innovazione con la necessità di garantire a tutti le cure più efficaci?
«Il bivio si supera concentrando gli ospedali e le migliori tecnologie. L’obiettivo è non dover trovarsi più a scegliere quale strada imboccare. Il percorso giusto è stato intrapreso: nel 2014 soltanto nel Lazio si è proceduto al taglio del 35% dei primari. Servono altri dieci anni di politiche coerenti e decise, intraprese non soltanto per risparmiare ma per allinearsi ai bisogni epidemiologici emergenti».
Twitter @fabioditodaro