L'attuale modello economico non è più sostenibile. E non basta considerare l'ambiente e il sociale due aspetti come altri all'interno della gestione aziendale: devono essere messi alla base di tutto, cambiando approccio. Francesco Bertolini, presidente del Green Management Institute, spiega in cosa consiste la bio-economia
Cosa ci sia dietro l’espressione greenwashing lo sappiamo tutti: l’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste da parte di aziende o organizzazioni usata per creare un’immagine positiva delle proprie attività e dei propri prodotti a dispetto della realtà.
Ma cosa vuol dire invece “green management”? Una gestione davvero sostenibile dell’attività o l’aggiunta in un secondo momento, per quanto in buona fede, dell’aspetto ecologico a quello economico? Spesso, purtroppo, si tratta della seconda opzione. «Il management – sottolinea Francesco Bertolini che da circa 20 anni si occupa di questi temi come ricercatore all’Università Bocconi di Milano e poi come presidente del Green Management Institute – non è stato in grado di costruire uno sviluppo sostenibile, uno sviluppo che non può che essere legato alla capacità del pianeta di rigenerarsi a fronte di un impatto antropico che negli ultimi 50 anni è stato disastroso. La bio-economia è l’unica strada per consentire un futuro al genere umano».
Cosa intende per bio-economia?
È un approccio per cui l’azienda mette il ciclo dell’ambiente al centro della propria formula imprenditoriale. Il profitto viene dopo; non è dimenticato ma non è il punto di partenza ma piuttosto una naturale componente dell’attività d’impresa. Una, non l’unica. Oggi sono pochissime le realtà aziendali che ragionano secondo logiche bio-economiche ma sono importanti perché, se riescono a stare sul mercato, potrebbero diventare i pionieri di un possibile nuovo modello.
Può farmi un esempio?
La Novamont produce bioplastiche. In Sardegna hanno una coltivazione di cardo da cui ricavano oli vegetali per realizzare prodotti che poi tornano nel ciclo naturale. Anche loro devono vendere e ricavare profitti ma lo fanno attraverso prodotti che non incidono sull’equilibrio del pianeta perché trasformano un inquinante in un nutriente. Cambia il paradigma: loro sono partiti con l’obiettivo di trasformare materie prime in prodotti industriali che poi vengono compostati e tornano nel terreno. Così il ciclo naturale si chiude senza aggravare il debito ambientale che stiamo maturando come sistema complessivo.
Potrei farle altri esempi di piccole e medie imprese italiane che sono partite dall’elemento di sostenibilità ambientale intorno a cui far gravitare tutta la formula imprenditoriale quindi non hanno aggiunto la sostenibilità a un modello economico tradizionale fondato sulla crescita continua ma l’hanno scelta come core business. Come quelle che hanno usato parti di territorio a vocazione vitivinicola in zone in cui il vino non si vendeva per produrre succo d’uva. In questo modo hanno recuperato una terra che sarebbe stata abbandonata, tutelandola e valorizzandola, hanno creato lavoro per gli agricoltori e hanno proposto un nuovo prodotto che apre nuove opportunità di business. Da qui potrebbero nascere altri prodotti di questo tipo legati alla tipicità del territorio e in grado di rispondere a un bisogno sociale oltre che al gusto dei consumatori.
Devono rispondere anche al mercato…
Certo. Anche queste aziende devono vendere il loro prodotto e crescere, è ovvio, ma l’approccio è diverso: un conto è partire dall’elemento economico e poi aggiungere l’aspetto ambientale ed etico, allora avremo un ritorno di investimento a breve termine, un conto è scegliere un modello di business che si fondi sulla sostenibilità ambientale e sociale: così forse potremmo avere una sostenibilità economica più stabile nel tempo.
Ci sono già le professionalità adatte a questo approccio o vanno formate?
Io sono critico verso le professioni specifiche. Queste sono tematiche che richiedono un approccio globale: non esiste l’esperto di marketing ambientale perché questo aspetto dovrebbe essere trasversale a tutte le funzioni aziendali. Non si tratta di inventarsi dei nuovi super esperti quanto piuttosto di creare lentamente una nuova classe dirigente e un nuovo management che interiorizzi questi aspetti e li metta al centro delle proprie politiche e dei sistemi di gestione non più come optional ma parte integrante di una nuova visione. La Corporate Social Responsability va intesa non come insieme di iniziative nel no profit staccate dal core business e spesso utili a ripulire l’immagine di aziende con gestioni non del tutto virtuose ma come scelta che coinvolga a 360 gradi ambiente, territorio e risorse umane.
Oggi quale dei due orientamenti prevale?
Dalla mia personale esperienza e dai casi che sono venuti alla ribalta, emerge come la CSR sia vista e vissuta come un’attività sostanzialmente di beneficenza più che come approccio olistico al problema. Penso alla Lehman Brothers il cui codice etico non le ha impedito una bancarotta che ha dato il via a una crisi economica globale. Ma penso anche alla nostra Parmalat che aveva un bilancio di sostenibilità eppure è fallita per bancarotta fraudolenta trascinando con sé grandi azionisti e piccoli risparmiatori. L’aver trasformato la responsabilità sociale in un modello standardizzato, convertendo tutto in chiave economica e definendo delle regole da applicare dall’alto, atteggiamento tipico delle scuole di business, si è dimostrato un approccio inadatto per quanto riguarda l’etica e l’ambiente.
Qual è, secondo lei, l’approccio giusto?
Osservare come le aziende rispondono alle necessità dei vari stakeholder – fornitori, mercato, interlocutori sul territorio – e valutarle sulla base di quello che gli stakeholder dicono ha più senso che andare a vedere se soddisfano dei parametri legati a standard come un tot numero di donne nello staff o l’adozione di certi sistemi di qualità. È un po’ quello che succede nel biologico quando i controlli vengono fatti sui registri per vedere se sono stati riempiti correttamente piuttosto che sul prodotto. La CSR ha seguito questa deriva burocratica: pensare che basti compilare un rapporto per essere etici e sostenibili. Finché il modello è basato sulla crescita continua non c’è codice etico che tenga. Se l’azienda è destinata ad aumentare in continuazione fatturato e utili, non potrà essere sostenibile e l’eventuale codice avrà lo stesso valore del vaso di fiori sul treno che sta andando verso il burrone. Non serve a niente. Dobbiamo fermare il treno e cambiare direzione.