Wise Society : Alex Bellini: “Porto in Mozambico il mio sguardo di esploratore per raccontare i piccoli successi che generano valore”
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Alex Bellini: “Porto in Mozambico il mio sguardo di esploratore per raccontare i piccoli successi che generano valore”

di Paola Greco
9 Novembre 2023

L’esploratore valtellinese è partito alla volta dell’Africa, per raccontare il lavoro di AVSI accanto alle comunità locali, per rafforzare la resilienza in una regione dilaniata da povertà, conflitti interni, scarsità di risorse.

Alex Bellini, classe ’78, esploratore e divulgatore ambientale, è partito per una nuova spedizione, destinazione Mozambico, regione recentemente colpita da eventi climatici estremi e ferita da attacchi terroristici. Lo scopo è quello di documentare i risultati del progetto WASH-UP, dell’ong AVSI (che da più di 50 anni è impegnata in progetti di cooperazione e sviluppo in 40 Paesi in tutto il mondo) e Medici con L’Africa, per raccontare i due anni di lavoro accanto alle comunità di alcuni territori del Paese, che versano in condizioni di fragilità. Lo abbiamo intercettato il giorno prima della partenza, il 3 novembre, e abbiamo parlato di questa nuova missione, ma anche di sogni, speranze, viaggi nell’io, nel noi e nel nostro, e, naturalmente, di sostenibilità.

Alex Bellini

Alex Bellini – Foto di Mauro Talamonti

Alex cosa vai a fare in Mozambico? Parlaci di questo progetto…

Il mio ruolo è quello di documentare attraverso foto, video e interviste i due anni di lavoro accanto alle comunità locali. Il progetto, giunto ormai nella sua fase conclusiva, ha come obiettivo quello di rafforzare la resilienza, da una parte, delle comunità ospitanti e dall’altra, quella delle popolazioni sfollate nei distretti di Metuge e Pemba, in una triplice prospettiva: emergenza-sviluppo-pace. Migliorare le condizioni di vita degli sfollati e delle comunità ospitanti è fondamentale, ai fini di una convivenza pacifica ed inclusiva.

Perché proprio il Mozambico?

Il Mozambico, così come altre regioni africane, è dilaniato da povertà, conflitti interni e scarsità di risorse. La difficile reperibilità dell’acqua costringe le popolazioni a migrare: qui esiste una forma di integrazione preesistente dovuta al fatto che non si spostano i singoli, ma intere famiglie, che vengono accolte da parenti che già si trovano qui. Si è quindi lavorato su tre azioni chiave: il miglioramento delle condizioni abitative, l’accessibilità alle risorse idriche e il supporto medico. La combinazione di questi fattori garantisce condizioni di vita dignitose e sostenibili, in un Paese che versa da decenni in una situazione molto difficile.

Persone in Sudan

Foto Asvi

Anche questo è sostenibilità…

Certamente! La sostenibilità ambientale non esiste senza l’accesso alle risorse e l’educazione a utilizzarle, senza rispetto per la dignità dell’individuo, senza cura per l’ecosistema in cui le comunità agiscono, favorendo le condizioni giuste, partendo dalle limitazioni dei conflitti interni. Non c’è ecologia senza attenzione a tematiche sociali e di tutela dei diritti.

Come procederai fattivamente?

Ho messo a disposizione di Fondazione AVSI il mio sguardo e la mia voce di esploratore per raccontare questi sforzi, questi luoghi, i piccoli successi che hanno un grande impatto sulla vita delle comunità e generano valore. Racconterò la mia spedizione attraverso i profili social (IG: @alexbellini_alone; Youtube: @alex_bellini Facebook: bellini.alex.1) come già avvenuto durante la precedente missione, sempre con AVSI, in Sud Sudan dove ho documentato il progetto FORESITE, focalizzato sulla fondamentale figura delle donne: AVSI, in quell’occasione, ha fornito a 700 madri la formazione tecnica e gli strumenti con cui incrementare la produzione agricola, dopo aver perso la terra che coltivavano a causa dei conflitti nel Paese. Per queste donne il progetto ha avuto un significato più ampio, perché ha rappresentato la libertà di poter fare le proprie scelte e di assicurare la sussistenza delle proprie famiglie, permettendo loro di raggiungere un nuovo livello di consapevolezza.

Come si sposa il tuo modo di essere un esploratore che basta a se stesso con l’uso della tecnologia e dei social?

Si tratta di una contraddizione solo apparente: la tecnologia è fondamentale per affrontare qualsiasi esperienza in sicurezza ed i social permettono di raccontare in tempo reale ciò che succede, raggiungendo un numero di persone altrimenti inimmaginabile.

Com’è nato il desiderio di esplorare il mondo “a mani nude”, se così si può dire?

Ho avuto due fortune, tra le tante, che hanno tracciato la rotta. La prima riguarda certamente il luogo in cui sono nato: in Valtellina l’esposizione alla montagna è costante e non l’ho mai vista come un ostacolo, un impedimento per lo sguardo, ma anzi l’ho sempre vissuta come un invito a guardare oltre. L’altro fattore determinante sono stati i miei genitori che mi hanno sempre lasciato libero di scegliere, inoltre mio padre è sempre stato un grande appassionato di Africa, ed ha sempre amato l’avventura, viaggiare, mettersi alla prova.

I primi viaggi sono state vere e proprie gare di autosufficienza: la mia prima avventura risale agli inizi del 2000, quando partecipai alla Marathon des Sables, percorrendo 250 km a piedi nel deserto del Marocco, a cui ha fatto seguito l’Alaska Ultrasport, durante la quale ho trainato una slitta per 2.000 km. Dalla sabbia, al ghiaccio, per poi arrivare al mare, quando ho attraversato Mediterraneo e Atlantico per 11.000 km remando in solitaria per 7 mesi e mezzo.

Donna in mozambico

Foto Asvi

Un uomo di montagna, solido, ancorato alla roccia… come fa a fidarsi del mare?

Mi sono costretto in un certo senso. Come l’Ulisse di Dante “misi me per l’alto mare aperto sol con un legno”.

E come lui hai superato le Colonne d’Ercole “per divenir del mondo esperto”…

Proprio così! Ad un certo punto ho pensato che fosse meglio perdersi nel mare che tra le mura domestiche, sfidare tutte le mie paure… la più grande: quella di non trovare il mio posto nel mondo. Avevo bisogno di conoscermi e di accettarmi: ho percorso più chilometri dentro me che nell’oceano, ma alla fine il mare mi ha lasciato più domande che risposte.

Una delle domande immagino sia: “perché?” Perché l’uomo violenta così la natura?

Quando cominci ad alzare lo sguardo da te stesso, e guardi l’ambiente che ti circonda, sicuramente il primo sentimento è quello di un grande sconforto… Quando ti trovi di fronte al ghiacciaio più grande d’Europa e sai che probabilmente si scioglierà entro la fine del secolo, quando navighi i fiumi più inquinati al mondo, oppure arrivi ad avere di fronte l’Isola di Plastica dell’oceano Pacifico, luoghi che dovrebbero essere incontaminati, diventa difficile avere fiducia nel futuro, si perde la speranza. Eppure rimane forte il bisogno di credere di poter fare la differenza. Essere attivi, attenendosi alle buone pratiche per me è un po’ come tenere il piede tra lo stipite e la porta… eppure tenere quel piede in mezzo sembra sempre più difficile.

Purtroppo manchiamo di lungimiranza… a cominciare dalle classi politiche che ci governano che pensano alla massimizzazione del successo hic et nunc, al qui e ora, senza una vera progettualità per il futuro, senza pensare a chi dovremmo diventare. E ti rendi conto che non saremo dei buoni antenati per le prossime generazioni.

Cosa dovremmo insegnare alle generazioni future, a cominciare dai nostri figli?

Dovremmo cercare di insegnare un vivere etico, inculcare la differenza tra il bene e il male e perché sia importante perseguire il bene, senza farsi abbagliare dal falso luccichio del male.

Hai fiducia nelle nuove generazioni?

Assolutamente sì, altrimenti cosa resta?! Viviamo in un’epoca complicata: i ragazzi devono fare i conti con la scarsità di risorse, con l’inquinamento, con i conflitti, gli stiamo lasciando un mondo che sta cadendo a pezzi, minaccioso. Eppure i movimenti giovanili stanno portando avanti un grandissimo lavoro, è grazie a loro se oggi si parla così tanto di ambiente, solo 15 anni fa sarebbe stato impensabile. Inoltre hanno una identità planetaria, si sentono cittadini del mondo, percepiscono un’idea più grande di quella nazionale. Capiscono che è fondamentale sintonizzarsi sui bisogni degli altri.

Viviamo in un mondo sempre più caldo, sempre più piccolo e interconnesso. Il Covid ci ha fatto capire molto chiaramente che non possiamo più girarci dall’altra parte: quando succede qualcosa in qualunque angolo del mondo, anche noi ne paghiamo le conseguenze. È necessario piantare il seme di un pensiero che superi differenze e distanze, perché siamo tutti sulla stessa barca; superare il paradigma dell’individuo, così tipicamente occidentale, per cominciare a coltivare una cultura della comunità, sviluppando un pensiero moderno che passi dall’io al noi. Ed io credo – e spero – che i giovani possano fare la differenza.


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Paola Greco

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