La prima certificazione che valuta l’impronta sociale di un prodotto vista attraverso l’esempio di alcune aziende che si sono sottoposte al processo di ottenimento.
C’è sempre maggiore attenzione da parte dei consumatori rispetto a come viene realizzato un prodotto. Un’indagine svolta nel 2013 in cinque Paesi ha evidenziato questa tendenza, rilevando che solo in due anni (dal 2011 al 2013) la necessità di conoscere la tracciabilità di un prodotto è aumentata in modo significativo, passando dal 54% al 61%.
Dallo scorso aprile è stato avviato uno strumento specifico che va a identificare cosa ci sia dietro a un prodotto: è la Social Footprint, la prima certificazione che valuta l’impronta sociale di un prodotto, valorizzando l’organizzazione, le persone, la manifattura e la filiera.
L’obiettivo della SFP è permettere alle aziende di comunicare in modo trasparente il proprio impegno etico-sociale e l’origine dei prodotti, coinvolgendo il consumatore nelle scelte di acquisto. È frutto di un lavoro congiunto tra Bureau Veritas e altri enti di certificazione e le cui caratteristiche sono già state presentate da wisesocierty.it in un precedente articolo.
L’originalità dello schema non è tanto l’attenzione alla tutela dei lavoratori, in quanto sul mercato ci sono già modelli specifici, ma perché SFP esplicita l’organizzazione e la serietà di un’azienda attraverso un’etichetta sul prodotto e un sito web di riferimento. Si tratta di un’informazione diretta al momento dell’acquisto, in cui il consumatore può sapere chi ha fatto quel prodotto, ma come è stato realizzato e la filiera a monte. Il consumatore potrà venire a conoscenza da dove provengono le materie prime, chi ha contribuito alla fabbricazione, dove si svolgono i processi produttivi e avere garanzie dei lavoratori.
Ma per capire come si arrivi a questo percorso e i vantaggi che offre al consumatore finale è bene conoscere l’esperienza diretta di alcune aziende che si sono mosse per ottenere la certificazione, e il cui esempio è stato presentato in occasione del salone CSR e Innovazione sociale, ospitato nell’Università Bocconi, a Milano. In un evento specifico è stata data voce a tre realtà molto diverse tra loro: Nexive, società di servizi in modalità b2b come stampa e recapito prodotti postali; Gruppo Dani, realtà operante nel settore concia pelli; Consorzio Casalasco del Pomodoro attivo nell’alimentare.
«Il valore aggiunto è duplice: da una parte c’è l’aspetto di comunicazione e trasparenza verso i nostri clienti, influenzata a loro volta dai loro clienti; l’altro riscontro è questo modello di social footprint ci consente di avere una governance più forte sui fornitori dei nostri servizi», spiega Roberta Culella, CR & Sustainability manager Nexive, che evidenzia anche l’elevata percentuale già oggi raggiunta di fornitori direttamente monitorati: 67%. Come si esplichi praticamente il monitoraggio lo spiega la stessa manager: «L’azione di monitoraggio viene svolta offrendo determinati requisiti: «Innanzitutto, da contratto devono presentare determinati documenti (antimafia, antiriciclaggio, Documento unico regolarità contributiva). Inoltre vengono sottoposti a controlli in remoto e in loco, mirati a verificare la qualità e gli indicatori previsti dallo schema Social footprint»».
Certamente, sottolinea Culella, l’ottenimento della Social footprint costituisce anche un vantaggio per l’azienda rispetto ai competitor, spendibile non solo coi privati ma anche con gli enti pubblici.
La trasparenza e la tracciabilità sono importanti anche per un settore quale quello della concia pelli, come ha spiegato Giancarlo Dani, amministratore delegato dell’omonimo Gruppo: «crediamo nel valore della tracciabilità del prodotto, per mostrare non solo la sua provenienza ma anche verificare il benessere animale, dalla stalla alla macellazione, e la serietà in tutte le fasi di lavorazione. La trasparenza è e deve essere il fattore cruciale e prioritario nelle aziende, non devono aver paura di mostrarsi ed eventualmente di compensare le proprie lacune». I vantaggi offerti al consumatore finale sono vari: «Offrendo trasparenza saremo conosciuti e apprezzati sia sul territorio sia sul mercato, che valuta con attenzione la sostenibilità ambientale di un’azienda del settore come il nostro, oltre a garantire la tutela dei lavoratori».
C’è poi il caso di chi il prodotto lo porta sugli scaffali: è il caso dei prodotti del Consorzio Casalasco del Pomodoro e dei suoi marchi, tra cui quello più conosciuto, Pomì. «L’attenzione del consumatore su fattori quali la sostenibilità ambientale è cresciuta nel giro di pochissimi anni, come pure l’attenzione a come, dove e da chi vengono preparati i prodotti. Per questo abbiamo cominciato il percorso che ci porterà nel 2016 all’ottenimento della Social Footprint: perché riuscirebbe a fornire un’idea chiara al consumatore, attraverso l’etichetta» afferma Fabrizio Fichera, direttore marketing del Consorzio.
Uno strumento in più a tutela del consumatore ma anche della stessa azienda e della sua reputazione, specie in un settore, quello alimentare, ad elevato rischio frodi: «già il percorso verso la certificazione porta l’azienda ad aprire le porte a soggetti terzi che valutano secondo determinati e rigorosi standard qualitativi; la social footprint, inoltre, attraverso la visualizzazione attraverso l’etichetta dei valori, degli indicatori, delle geolocalizzazioni su soci, fornitori e stabilimenti di produzione può sicuramente aiutare in questo senso: sulle nostre confezioni forniamo ogni parametro di sicurezza, compreso l’azienda agricola dove è stata coltivata la materia prima».