Fumata nera per i negoziati tenutisi a Busan, in Corea del Sud: gli oltre 170 governi partecipanti non hanno raggiunto il consenso sul trattato globale sulla plastica
Dopo cinque tornate di negoziati nell’arco di due anni, le speranze di avere un “Accordo di Parigi sulla plastica” cadono nel vuoto. Gli oltre 170 governi coinvolti non sono riusciti a trovare una posizione comune: il vertice di Busan, in Corea del Sud, si è dunque concluso domenica 1° dicembre decretando il fallimento dell’iniziativa.
Come funzionano i negoziati internazionali sulla plastica (INC)
Per capire meglio di cosa stiamo parlando dobbiamo fare un passo indietro fino a marzo del 2022, quando l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente – il massimo organo decisionale dell’Onu in materia ambientale – adotta una risoluzione che chiede di sviluppare uno strumento internazionale, legalmente vincolante, sull’inquinamento da plastica. Nasce così l’Intergovernmental Negotiating Committee, noto con l’acronimo INC, che ha il compito di produrre questo trattato, con un approccio che prenda in considerazione l’intero ciclo di vita della plastica, partendo dalla produzione per poi passare al design e allo smaltimento.
I negoziati si sono articolati su cinque sessioni:
- INC-1 a Punta del Este (Uruguay) dal 28 novembre al 2 dicembre 2022;
- INC-2 a Parigi (Francia) dal 29 maggio al 2 giugno 2023;
- INC-3 a Nairobi (Kenya) dal 13 al 19 novembre 2023:
- INC-4 a Ottawa (Canada) dal 23 al 29 aprile 2024;
- INC-5 a Busan (Corea del Sud) dal 24 novembre al 1° dicembre 2024.
Il mancato accordo sul trattato globale sulla plastica
La peculiarità di questi negoziati sta proprio nell’intento di lavorare sull’intero ciclo di vita della plastica: prima ancora di ragionare sullo smaltimento, dunque, bisogna intervenire sui modelli di produzione e consumo.
Finora i singoli Stati si sono mossi in ordine sparso; basti pensare all’Unione europea che ha tolto dal commercio nei 27 Paesi membri cannucce, cotton fioc, posate, piatti e altri prodotti di plastica usa e getta. Per raggiungere risultati rilevanti a livello globale, però, occorrono regole condivise.
I Paesi che premono per maggiori limiti alla produzione di plastica
Proprio l’Unione si è presentata a quest’ultimo round di negoziati ponendo come priorità “la necessità di affrontare i livelli elevati e insostenibili della produzione primaria di polimeri di plastica, vietare le microplastiche aggiunte intenzionalmente nei prodotti e convergere attorno a una struttura nel nuovo strumento che affronti in modo completo la produzione di plastica”. E chiedendo “che i grandi produttori assumano una parte della responsabilità finanziaria per l’inquinamento da plastica, sulla base del principio chi inquina paga”.
Ci sono diversi Paesi europei – ma non l’Italia – tra i 67 membri della High Ambition Coalition to End Plastic Pollution, la cui missione dichiarata è quella di porre fine all’inquinamento da plastica entro il 2040. Attraverso un comunicato diffuso in vista dei negoziati di Busan, la coalizione ribadisce la necessità di accordarsi su misure comuni e legalmente vincolanti, con obiettivi misurabili e circostanziati nel tempo e un adeguato supporto finanziario soprattutto per i Paesi in via di sviluppo.
L’opposizione dei Paesi produttori di petrolio
Di segno totalmente opposto l’orientamento dei Paesi produttori di petrolio, a partire da Arabia Saudita, Russia e Iran. Oggi, infatti, soltanto una striminzita percentuale della plastica viene prodotta dal riciclo o dalle biomasse: i dati del 2021 di Plastic Europe parlano rispettivamente di 33 e 6 milioni di tonnellate, contro i 352 milioni che sono prodotti a partire dagli idrocarburi. Tenere in vita la produzione di plastica, dunque, significa garantire che la domanda di idrocarburi resti salda in futuro, nonostante l’elettrificazione della mobilità e la progressiva transizione del sistema energetico verso le fonti rinnovabili.
Perché sono falliti i tentativi di raggiungere un accordo
Come spiega Politico, dunque, questo gruppo di petrostati ha fatto muro contro qualsiasi proposta che avrebbe inciso, a monte, sulla produzione di plastica. La Cina, viceversa, ha mostrato un atteggiamento più conciliante, pur essendo il primo Paese in assoluto per volumi di produzione di plastica. Alla fine, però, non si è raggiunto il consenso necessario. Oltre ai limiti alla produzione, gli altri aspetti rivelatisi divisivi sono la gestione delle sostanze chimiche pericolose e i finanziamenti che avrebbero supportato i Paesi in via di sviluppo nell’implementazione delle misure. “È chiaro che persistono ancora divergenze”, ha ammesso Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
Potrebbe non essere ancora stata scritta l’ultima parola, perché si parla della possibilità di riaprire i negoziati in un secondo momento. “Quello a cui abbiamo assistito a Busan è stata una strumentalizzazione del principio del consenso da parte di un piccolo numero di Stati, al fine di mettere in stallo i progressi e indebolire i negoziati”, tuona David Azoulay del Center for International Environmental Law (CIEL). “Alla prossima sessione, i Paesi dovranno chiarire una volta per tutte di essere pronti a usare tutte le opzioni, compreso il voto, per raggiungere il trattato di cui continuano a ribadire la necessità”.
L’impatto ambientale della plastica
La posta in gioco è altissima. Pur essendo un’invenzione relativamente recente, che risale alla metà del Ventesimo secolo, la plastica ha invaso il Pianeta lasciando un’eredità che persisterà ancora per millenni. Più della metà della plastica esistente è stata fabbricata a partire dal 2000, riferisce l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA). Negli ultimi sette decenni, ogni anno la produzione globale è stata più alta rispetto all’anno precedente: e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) prevede che, a questi ritmi, sia destinata a triplicare entro il 2060.
Tutto questo ha ripercussioni gigantesche sugli ecosistemi, visto che ogni anno circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti plastici finiscono negli oceani. A questo bisogna aggiungere l’impatto sul riscaldamento globale: nel suo insieme, l’industria della plastica ha emesso 1,8 gigatonnellate di CO2 nel 2019, il quintuplo dell’intera economia del Regno Unito. Ancora parzialmente sconosciute le conseguenze sanitarie della massiccia esposizione a microplastiche, trovate in pressoché tutti gli alimenti che mangiamo e anche all’interno del corpo umano.
Valentina Neri