Secondo uno studio inglese entro la metà del secolo la distribuzione ittica cambierà mettendo a rischio l'economia del Sud-est asiatico
Anche la terra, ma soprattutto l’acqua, sono tutt’altro che indifferenti all’aumento di anidride carbonica in atmosfera e al conseguente riscaldamento globale. Acque più acide e con ridotta concentrazione di ossigeno, infatti, rendono mari e oceani ambienti meno ospitali per alcune specie ittiche. Un dato che, abbinato alla crescita della popolazione umana e all’aumento della domanda globale di pesce, fa sorgere un dubbio: per quanto tempo ancora la pesca sarà un’attività sostenibile?
SERVE UNA MAGGIORE TUTELA DEL MARE – Flessibilità e adattabilità: ecco il consiglio degli esperti per aiutare l’ecosistema marino, sempre meno stabile e non più in grado di assicurare rese costanti nel tempo. Soltanto in questo modo sarà possibile favorire una pesca duratura e sostenibile nel tempo. A confermarlo è uno studio pubblicato su Nature Climate Change, secondo cui fino al 2050, sebbene i ricercatori stimino un ulteriore aumento delle temperature, le acque – dolci e salate – saranno in grado di far crescere specie ittiche destinate al consumo alimentare, purché ci sia maggiore cooperazione tra gli Stati. Sbaglia, e non poco, chi pensa che di cambiamento climatico si discuta e basta, senza anticipare le conseguenze dannose per l’ambiente. Il tempo per correre ai ripari c’è, ma è necessario che le pratiche commerciali diventino meno spregiudicate e più attente alla tutela dell’ambiente.
Secondo il modello applicato alla ricerca – in cui sono state valutate le risposte fisiche, biologiche e umane ai cambiamenti climatici in corso in 67 paesi leader nel settore della pesca – entro la metà del secolo la produzione ittica aumenterà alle alte latitudini. Nelle altre zone, in cui l’influenza meteorologica sarà più pesante, è invece prevista una riduzione del pescato. L’incremento interesserà soprattutto l’Africa occidentale (Benin, Liberia, Mali, Senegal, Nigeria, Mauritania, Ghana, Guinea), a scapito della pesca nel sud-est asiatico e nei Paesi tropicali (Bangladesh, Cambogia, Yemen e Pakistan). «Paesi, questi ultimi, in cui le quantità potranno calare anche del 40%», spiega Manuel Barange, prima firma dell’articolo e direttore del Marine Laboratory di Plymouth, nel Regno Unito. «Un oceano più caldo genera specie con un metabolismo stressato, con meno energia per la crescita e la riproduzione».
ECONOMIA A RISCHIO – Tra i Paesi più vulnerabili, ve ne sono alcuni per cui la pesca costituisce la voce più importante del prodotto interno lordo, oltre che la principale fonte proteica della dieta. E il riscaldamento delle acque non aiuta. In molti, infatti, ricordano ancora le conseguenze causate da El Niño – fenomeno provocato dall’arrivo di masse di aria calde nelle acque dell’Oceano Pacifico – negli anni ’90 lungo le coste del Cile, dell’Ecuador e del Perù, primo produttore al mondo di acciughe: la cattura in mare calò di oltre il 50%, con una perdita di oltre otto miliardi di dollari. Più attuale, invece, è il caso dell’Oregon (Stati Uniti), dove l’aumento delle temperature delle acque sta facendo crescere a dismisura la popolazione delle meduse, in grado di consumare notevoli quantità di plancton, sottraendole così alla dieta di pesci e cetacei. Economia e tutela dell’ecosistema sarebbero dunque a rischio, con le acque di mari e oceani più calde. L’ultima ipotesi è sostenuta da uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science. La causa dell’aumento dei salmoni, dagli anni ’70 a oggi, sarebbe riconducibile al cambiamento climatico. Sarebbero i pesci rosa – onnivori la cui alimentazione è molto variegata: dallo zooplancton fino agli sgombri – i responsabili della riduzione di alcune specie nel Pacifico del Nord e nel mare di Bering, tra cui il merluzzo bianco e molte specie di tonno.
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