169 Paesi devono fare tutto il possibile per limitare le emissioni di gas a effetto serra, tutelando così i piccoli Stati insulari. A dirlo è una storica sentenza emanata il 21 maggio dal Tribunale internazionale del diritto marittimo
169 Stati di tutto il mondo hanno il dovere di fare tutto ciò che è in loro potere per limitare le proprie emissioni di gas a effetto serra e, così facendo, salvaguardare i piccoli Stati insulari che rischiano di scomparire letteralmente dalle cartine geografiche a causa della crisi climatica. È quanto afferma una storica sentenza emanata il 21 maggio dal Tribunale internazionale del diritto marittimo.
La causa intentata dai piccoli Stati insulari
Il Tribunale internazionale del diritto marittimo (noto con la sigla Itlos, dall’inglese International Tribunal for the Law of the Sea) è un organo indipendente delle Nazioni Unite che ha sede ad Amburgo. Costituito da ventuno membri, ha il compito di risolvere le controversie legate all’interpretazione e all’applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, siglata in Giamaica nel 1982, entrata in vigore nel 1996 e firmata da 169 Stati.
A questo tribunale si è rivolta la Commissione dei piccoli Stati insulari sui cambiamenti climatici e il diritto internazionale (Cosis), in rappresentanza di nove Stati: Antigua e Barbuda, Niue, Palau, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Tuvalu e Vanuatu. La loro richiesta era quella di riconoscere che le nazioni aderenti alla Convenzione Onu sul diritto del mare hanno la responsabilità di rafforzare le misure di mitigazione dei cambiamenti climatici.
Cosa ha deciso il Tribunale internazionale del diritto marittimo
Una richiesta che il Tribunale internazionale del diritto marittimo ha accolto. Nella sua prima sentenza che riguarda il clima, la corte afferma infatti che le emissioni di gas serra assorbite dagli oceani devono essere considerate come inquinamento dei mari. Gli Stati devono quindi fare tutto il possibile per proteggere l’ambiente marino e gli Stati che dipendono da esso per la propria sopravvivenza, fissando obiettivi di riduzione delle emissioni imperniati sulla scienza e sugli standard internazionali. Andando dunque ben oltre rispetto a quanto viene loro richiesto dall’Accordo di Parigi sul clima.
Questa sentenza tecnicamente è un parere non vincolante, privo di potere coercitivo. Nonostante ciò, potrà comunque avere delle conseguenze molto tangibili, perché d’ora in poi i tribunali nazionali dovranno prenderla in considerazione.
Perché i piccoli Stati insulari sono così vulnerabili alla crisi climatica
I piccoli Stati insulari sono quelli che oggi “lottano per sopravvivere” a causa delle emissioni delle economie avanzate, ha dichiarato il primo ministro di Antigua e Barbuda, Gaston Browne. “Alcuni diventeranno inabitabili nel prossimo futuro perché non si è riusciti a mitigare le emissioni di gas serra. Chiediamo che i grandi inquinatori rispettino il diritto internazionale e pongano fine ai danni catastrofici che provocano su di noi, prima che sia troppo tardi”.
La minaccia numero uno è l’innalzamento del livello dei mari, come ha efficacemente denunciato il ministro degli Esteri di Tuvalu, Simon Kofe, con il suo iconico discorso per la Cop26 tenuto in giacca e cravatta, con i piedi nell’acqua. Anche nella più ottimista delle ipotesi, in cui il riscaldamento globale resta entro gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, i 39 piccoli Stati insulari in via di sviluppo (Sids, small island development states) entro la fine del secolo andrebbero incontro a un numero di inondazioni costiere più che decuplicato rispetto a oggi. A dirlo è uno studio pubblicato da Nature sustainability.
Già oggi, questi Paesi – in cui vivono circa 70 milioni di persone – subiscono danni economici stimati in 1,54 miliardi di dollari all’anno. Entro la metà del secolo, in assenza di misure di adattamento, questi anni saliranno di 9-11 volte rispetto alle cifre attuali, arrivando fino a una percentuale compresa tra l’1,2 e il 5,1% del loro prodotto interno lordo attuale. Entro la fine del secolo, l’aumento sarà di 25 volte.
Valentina Neri