Come cambieranno nei prossimi decenni le nostre vite e i nostri comportamenti e con quale impatto sulla società? Ne parliamo con Nicola Palmarini, direttore, nel Regno Unito, del National Innovation Centre for Ageing e uno dei massimi esperti mondiali in materia
Le continue scoperte in ambito medico-scientifico, insieme con tutta una serie di altri fattori sociali ed economici, hanno portato a uno dei cambiamenti demografici più importanti e impattanti della storia: l’allungamento della durata media della vita umana. Come ciò cambierà sempre di più nei prossimi decenni le nostre esistenze e i nostri comportamenti e con quale impatto sulla società?
E come l’Intelligenza artificiale e l’enorme mole di dati di cui si nutre – proprio su questo fronte si pongono non poche questioni etiche riguardo la gestione, da parte di chi ne ha il controllo, dei big data – potranno essere utilizzati per un benessere sempre più diffuso e generalizzato? Ne parliamo con Nicola Palmarini, direttore, nel Regno Unito, del National Innovation Centre for Ageing e uno dei massimi esperti mondiali in materia, intervenuto nel nostro Longevity & Anti-Aging World Forum.
Perché il tema della longevità è così importante ed è una delle frontiere più sfidanti per il futuro del genere umano?
Agire, ossia l’ultimo passaggio del difficile processo di migliorare il mondo, dovrebbe essere solo una formalità. Una volta che abbiamo raccolto tutti i dati, li abbiamo organizzati, ne abbiamo individuato le cause e gli effetti e abbiamo convinto le parti interessate e noi stessi che esiste un modo migliore di procedere, non ci rimane da fare altro che premere il pulsante e mettere in moto il processo. Purtroppo, non esiste nessun pulsante. Non esiste un’unica azione da compiere per invertire i cambiamenti climatici, estirpare gli sprechi dalla catena di fornitura, eliminare l’obesità o risolvere il problema del traffico.
Per agire su un sistema non esistono interventi immediati, ma occorre adottare un approccio progressivo, un po’ come costruirsi una carriera. Se esistesse un pulsante del progresso, se conoscere il percorso da seguire e disporre degli strumenti necessari fosse sufficiente, i condotti del gas non esploderebbero, le economie non collasserebbero, i cieli sarebbero tersi, non ci sarebbero pandemie, incendi o siccità. Saremmo tutti sani, in possesso di un’istruzione adeguata, ben nutriti e trascorreremmo molto più tempo con i nostri famigliari in spaziose abitazioni a zero emissioni di anidride carbonica. Ma le cose non stanno così, anzi a volte sembrano peggiorare. Il clima si sta riscaldando, i virus sono più virulenti e i sistemi creati dall’uomo stanno deteriorandosi rapidamente.
Credo che la pandemia ci abbia suggerito che sia arrivato il momento di recuperare il senso della complessità delle cose, della fragilità della natura, della finitezza dell’uomo, invece che spacciare tutto come «adesso», «immediato», «presente» e al tempo stesso infinito. Il lavoro sulla longevità è molto di più di una “semplice” ricerca sulla biologia dell’uomo e della donna. È un lavoro sull’interpretazione profonda delle relazioni tra sistemi della natura su questo pianeta. Per questo è, forse, la “ricerca delle ricerche”.
Quali sono i principali filoni di ricerca che state portando avanti al National Innovation Centre for Ageing?
Al Nica prendiamo molto sul serio la parola “innovazione”. Non è quel vocabolo accessorio che oggi viene appiccicato un po’ ovunque per dare, all’oggi, una spruzzata di domani. Ricercare le leve dell’“innovazione” nel settore della longevità e dell’invecchiamento è la nostra missione e attività quotidiana, fatta coinvolgendo costantemente le persone in un dialogo idealmente infinito sui temi della vita, identificando in anticipo le tendenze che possono portare a cambiamenti radicali nelle nostre abitudini e costumi, comprendendo le loro dinamiche e traiettorie per fornire ai nostri clienti e alle organizzazioni che lavorano con noi gli strumenti per intercettare sia il significato, sia l’opportunità.
Di sicuro nel nostro lavoro c’è un macro-filone che unisce tutte le nostre attività nel cercare di democratizzare molta della ricerca che avviene nei laboratori di tutto il mondo, che fa progressi decisivi, ma che sempre più spesso rimane confinata in conferenze, in dibattiti tra esperti, in circoli chiusi. A questo scopo sulla longevità abbiamo appena lanciato alla conferenza globale dei Longevity Leaders di maggio a Londra un nuova iniziativa chiamata Longevity as a ServiceTM dove è “service” la parola chiave. Parafrasando le modalità di distribuzione decentralizzate del software abbiamo costruito un processo di ricerca e selezione di servizi più o meno articolati e verticali a supporto della longevità – dall’analisi e misurazione dei bio-marcatori a supplementi nutrizionali specifici a programmi di benessere.
Servizi che hanno tutti la medesima peculiarità: sono abilitati digitalmente a interfacciarsi online e senza intermediazione direttamente con i consumatori, sono tutti basati su dati ed evidenza scientifica e mirano a fornire un beneficio specifico per l’individuo in quanto tale, rispettandone la diversità e l’unicità. Il nostro lavoro, oltre a quello della selezione è quello di stimolare e guidare la loro aggregazione in bundle creando un ideale portfolio dinamico di servizi a disposizione del mercato, tutti coordinati l’uno all’altro. Agendo come orchestratori di questo processo abbiamo l’ambizione di democratizzare l’accesso a quella che, al momento, è un’offerta solo per un pubblico decisamente ben informato, consapevole e con un piuttosto ben definito status socioeconomico.
Il tema della longevità è articolato e complesso: se chiedeste a un qualsiasi laboratorio e al capo della ricerca che lo guida dell’importanza del suo lavoro, molto probabilmente vi risponderebbe che il lavoro del suo team è il “perno della longevità”. E probabilmente, in parte potrebbe anche avere ragione. In parte, appunto. Il salto cruciale è capire e credere nella dimensione olistica del concetto di longevità, nel fatto che sia una combinazione di fattori, che abbia poco a che fare con la vecchiaia, quanto molto con la vita nella sua interezza e che riguarda tutte le fasi della vita e le sue dimensioni quotidiane, compreso il lavoro. E quindi al Centro ci occupiamo di esplorare quella dimensione olistica attraverso 8 settori di industria – dai trasporti agli stili di vita – come questi sono rapportati gli uni agli altri e come si possono portare velocemente e in modo diffuso sul mercato sviluppando una narrativa che oggi, oggettivamente, è solo agli albori.
Ecco, il lavoro sulla narrativa non come didascalia di marketing, ma come applicazione concreta di soluzioni coinvolgendo le persone direttamente all’inizio del processo e non alla fine come terminali di qualcosa inventato da qualcuno. Abbiamo definito una metodologia chiamata Ageing Intelligence® e l’abbiamo registrata come marchio perché crediamo che oggi manchi un approccio che cerchi sia di sfruttare che sviluppare una intelligenza condivisa capace di combinare quella delle persone, quella della ricerca e quella dei dati per trasformare quello che tutti sappiamo già o di cui dobbiamo ancora capire gli impatti sul corso della nostra vita in una dimensione coordinata e correlata.
Perché invecchiamo e quali sono i meccanismi che ci permettono di riuscire a vivere più a lungo e in salute? Tramite l’IA riusciremo un giorno a dare una risposta univoca a questi interrogativi?
Credo sia una domanda al tempo stesso cruciale e retorica. Mi spiego. Una delle teorie più interessanti correlata al nostro processo di invecchiamento è quella dell’esposoma di Wild. Per semplificare possiamo dire che l’esposoma è l’equivalente ambientale del genoma umano. Rappresenta le complesse esposizioni a cui siamo sottoposti nel corso della nostra vita, compresa la nostra dieta, i fattori dello stile di vita e le influenze sociali. Incorpora anche il modo in cui il nostro corpo risponde a queste sfide.
L’esposoma consiste di tre domini sovrapposti: un ambiente esterno generale (che include l’ambiente urbano, l’educazione, i fattori climatici, il capitale sociale, lo stress), un ambiente esterno specifico con contaminanti specifici (come radiazioni, infezioni, fattori legati allo stile di vita) ed un ambiente interno per includere fattori biologici (come fattori metabolici, ormoni, microflora intestinale, infiammazione, stress ossidativo). Già dalla superficiale elencazione di questi marcatori è facile capire sia la loro importanza, in grandissima parte inesplorata, sia la complessità della loro interpretazione. A questi potremmo aggiungere uno dei tanti altri ambiti di ricerca sulla quale intersecare i fattori precedenti come i punteggi di rischio poligenico di Plomin – metriche che raccolgono informazioni da decine, centinaia, migliaia o anche milioni delle nostre varianti genetiche condensando queste informazioni in un punteggio che misura la nostra predisposizione genetica a malattie specifiche o tratti complessi come la depressione, la schizofrenia e il rendimento scolastico.
In alternativa diametralmente opposta per complessità, potremmo scordarci di tutte le ricerche genomiche in corso o della disponibilità di kit per il test del Dna, e misurare solo quanto camminiamo veloci all’età di 45 anni. I risultati di uno degli studi più lunghi, ricchi ed estesi dall’età prescolare fino alla vecchiaia ha dimostrato che chi cammina più lentamente a quell’età invecchia più precocemente e suoi polmoni, denti e sistema immunitario tendono ad essere in condizioni peggiori rispetto a quelli di chi ha un passo più accelerato. Il tutto in persone di 45 anni, non in pazienti geriatrici che sono di solito valutati secondo questi parametri.
Ecco, tutto questo per dire che il vero potenziale dell’IA risieda nell’aiutarci ad osservare la relazione tra questi marcatori e capire le ragioni specifiche per cui ognuno invecchia in modo diverso, in altre parole, serve retoricamente a tutto, ma anche a nulla se non aggiungiamo intuizione umana, layer computazionali cognitivi disegnati propriamente e poi quella immensa potenza di calcolo che cominciamo ad avere a disposizione che non viene quasi mai citata, ma che è una delle ragioni per cui oggi possiamo parlare di “intelligenza artificiale”.
Quali sono le ricerche più attuali e promettenti in ottica futura in questo ambito e come l’IA può essere utilizzata per migliorare la durata e la qualità della vita?
Ne cito quattro che – a mio avviso – possono permettere una accelerazione, parola chiave nel discorso che stiamo facendo attorno alla longevità, per transitare dallo stato attuale della cosiddetta Narrow AI alla fase successiva definita Broad AI. Già questo è un passaggio estremamente complesso, per nulla scontato e che poco ha ancora a che vedere con quel concetto di General AI che riempie le pagine di cronaca – i computer in grado sostanzialmente di pensare e di decidere in autonomia – e che si staglia su un orizzonte teoricamente possibile, ma – a mio avviso – lontano nel tempo e forse con modalità diverse da come le abbiamo considerate fino ad oggi nella nostra fantasia.
Rimanendo ancorati alla realtà possibile e al duro lavoro che stanno facendo decine di team nei diversi centri di ricerca credo che l’Apprendimento multimodale, ovvero la capacità di imparare contemporaneamente da diversi input decifrando contesti complessi che incorporano immagini, azioni e suoni, sia un progresso cruciale perché amplifica un utilizzo contestuale dei dati e, allo stesso tempo, un loro utilizzo diverso rispetto al contesto. Questa espansione della capacità di apprendimento verrà progressivamente potenziata dalla Neurosymbolic AI, una tecnica molto simile alla nostra (eccezionale e complicatissima) capacità di interpretazione della realtà. Combinando reti neurali capaci di estrarre strutture statistiche da file di dati grezzi – un contesto di immagini e suoni ad esempio – questa tecnica ci permette e permetterà di riconoscere e rappresentare, appunto simbolicamente in forma di problemi e di logica, le situazioni che ci si presentano davanti.
In questo contesto si colloca anche quella che definiamo come Causal Inference. Esiste una correlazione tra la musica che ascoltiamo e quello che mangiamo? Si tratta di quella capacità di effettuare dei veri e propri salti logici tra quelle azioni o quegli stati che appaiono in prossimità (correlazione) e azioni che effettivamente si influenzano a vicenda (causalità). Non serve sottolineare l’importanza di questa capacità logica nel contesto delle dimensioni olistiche della longevità di cui si diceva prima quando ci troviamo a dare un senso e correlare milioni di data point relativi al nostro benessere.
Infine, le Time Series, serie temporali di informazioni che contengono dati eterogenei in continuo aggiornamento temporale: registri delle prestazioni finanziarie o record sanitari. O, rimanendo nel nostro contesto, l’aggiornamento continuo e in tempo reale del nostro stato di salute, di benessere, di felicità in base al nostro comportamento. Vogliamo tutti prevedere più accuratamente le nostre prestazioni future, e al tempo stesso capire attraverso l’evoluzione dei dati quali siano i fattori alla base di quelle prestazioni e come queste siano univocamente riferite a “me” come individuo o a “noi” come comparto sociale, e quindi suggerire cambiamenti al comportamento, sempre in tempo reale, per influenzare le prestazioni.
Uno degli obiettivi del centro che dirige è trovare quegli elementi che possono contribuire a creare un mondo in cui tutti, nessuno escluso, possa vivere meglio e più a lungo. Quali sono questi elementi che avete, ad oggi, individuato?
Mi piace rispondere con uno dei tanti feedback che collezioniamo lavorando con le persone che fanno parte della comunità di utenti che coinvolgiamo quotidianamente nel nostro lavoro: «Ogni giorno ci sono sempre più informazioni disponibili su come vivere più a lungo, e mentre penso che questo sia fantastico, in realtà rende davvero difficile sapere cosa fare e se si sta facendo la cosa giusta. Sento che c’è un’enorme urgenza e responsabilità nell’affrontare questo problema, ma al di là delle basi di più esercizio fisico e “cinque porzioni di frutta e verdura al giorno”, non so da dove cominciare e non ho idea se sto facendo la cosa giusta o se sta facendo qualche differenza».
Un primo elemento è, dunque, quello di provare a rispondere a questa domanda: c’è bisogno di chiarezza, di educazione e c’è bisogno di introdurla lungo tutto il percorso di vita e non alla fine di quel percorso. La longevità non ha a che fare necessariamente con la vecchiaia, ma con la consapevolezza del sé, di quello che ci fa bene rispetto a quello che ci fa stare bene. Il secondo elemento è rappresentato, come dicevo, dall’avere il coraggio nel sostenere una vista orizzontale, una dimensione olistica, rompere i silos e permettere di capire che l’evidenza dei dati e un approccio scientifico è applicabile a tutti i contesti.
Torno al discorso di prima: non esistono scienze di serie A e di serie B o C. Se possiamo dimostrare che il volontariato o lo yoga – che non cito a caso perché sono due dimensioni sulle quali stiamo facendo parecchio lavoro – permettono di misurare un ritorno in longevità, bene io le considero al pari della ricerca sui glicani o sul coenzima NAD+ sui quali stiamo facendo altrettanto lavoro. Un terzo elemento è il mercato. Se non traduciamo questa idea articolata di longevità in una offerta per il mercato stiamo perdendo l’occasione di accelerare un futuro migliore per il pianeta e le persone che lo abitano.
Uno dei problemi, infatti, è l’iniquità sociale che vediamo in tutte le dimensioni personali e sociali attorno all’individuo, iniquità che drammaticamente vediamo manifestarsi nel contesto della salute dove la conseguenza è la perdita della vita stessa. Abbiamo bisogno del mercato per coinvolgere le imprese, ridurre i costi, trasformare la longevità in una commodity, non in un beneficio (ulteriore) per i più ricchi. E di conseguenza l’etica, non solo dell’accesso, non solo della sicurezza (la cybersecurity sta alla longevità come il microscopio alla ricerca), non solo della “privacy”, ma anche etica dell’interpretazione.
In un mondo che sarà sempre più processato attraverso gli algoritmi, la loro comprensione, la spiegabilità, la loro reversibilità diventeranno fattori cruciali per permettere decisioni eque e non basate su stereotipi di genere, di razza, di età appunto, come accade quotidianamente. Se l’erogazione di un mutuo è legata al mio stato di salute, bene vorrei che quella valutazione fosse coerente con il mio vero stato di salute e non con un presunto parametro basato su generici fattori estratti da chissà quale tabella compilata da qualche funzionario nel 1975. I dati che inseriamo nei sistemi sono vecchi, i vettori che processano il linguaggio legati a bias di decine di anni fa e poco o raramente aggiornati. E tutto questo non è solo cosa “buona e giusta”, è anche, a mio avviso, il perno attorno al quale si distinguerà il successo delle imprese. Si dice che non esista una IA senza i dati, e aggiungo che non esiste un business dell’IA senza una sua etica.
In che senso – sue testuali parole – l’invecchiamento è qualcosa di malleabile? In che modo possiamo intervenire nei processi di ageing?
La salute è influenzata da una serie di fattori in cinque domini chiave. I domini che potremmo definire “non legati alla malattia” che includono i modelli comportamentali (40% di influenza sulla salute), la genetica (30%), le circostanze sociali (15%), e le esposizioni ambientali (5%). E il dominio in cui la malattia è presente e comprende, ça va san dire, l’assistenza sanitaria (10%).
Mentre potremmo metterci qui a discutere all’infinito sulle percentuali esatte tra quei cinque domini, siamo invece forse tutti d’accordo che quando si tratti di ridurre le morti precoci, l’assistenza sanitaria abbia un ruolo tutto sommato relativamente minore, ma consumi la maggior parte dell’attenzione dei politici, delle aziende e dei nostri bilanci. Se quindi immaginiamo l’invecchiamento come un blocco di marmo che fino a qualche anno fa sembrava inscalfibile, oggi abbiamo la certezza che se opportunamente informati, supportati e istruiti noi stessi possiamo diventare gli scultori della nostra stessa vita e trasformare quel simbolico blocco di marmo in una splendida scultura, in una statua di cui noi siamo il soggetto.
La longevità è, dunque, un viaggio, non una destinazione, che parte dalle persone che decidono di intraprenderlo, che ha bisogno dei giusti compagni per essere apprezzato e sfruttato e delle giuste rotte per renderlo piacevole, lungo, soddisfacente. Fuor di metafora, questo viaggio è fatto di una combinazione di fattori ed esperienze umane, di ricerche, di tecnologie, di processi, di innovazione di modelli di business, tradotti in servizi disponibili attraverso una logica di go-to-market a disposizione di tutti: cittadini e imprese intese come un microcosmo della società. Ecco, allo stato attuale secondo me è più importante forse capire “dove, quando e come” anziché “cosa”.
Ci sono sviluppi straordinari nella scienza della longevità, allora perché le persone non vivono ancora più a lungo e meglio? Ormai sappiamo benissimo che una certa attività fisica o una dieta povera di zuccheri o il dormire bene ci aiutano a vivere meglio e allora perché non lo facciamo? Forse perché parliamo troppo di sanità o di biomarcatori o di sirtuine (proteine fondamentali che permettono alla cellula di vivere più a lungo, ndr) e meno di come educare e convincere le persone – a partire dalla giovanissima età – a intraprendere quel viaggio di cui parlavo prima. Sono convinto che per accelerare questo passaggio sia necessario coinvolgere strutturalmente le aziende come interfacce verso i cittadini nel loro ruolo sociale di lavoratori. Un patto governo, imprese, lavoratori potrebbe rappresentare il salto decisivo per instillare questa cultura. Sembra tutto così ovvio, eppure, ancora così difficile da realizzare.
Nel suo libro Immortali. Economia per nuovi highlander solo provocazione o anche realtà possibile?
Esattamente, è una provocazione della realtà. E se vivessimo centro, duecento, trecento anni come qualche “bombardiere di news della longevità” vuol farci credere? Quanto sono vere queste news? Qual è lo scenario economico e di business che si staglia dietro la salvifica parola della “longevità estrema”. Qual è e cos’è il mercato della longevità? E se mai fossero vere quelle assunzioni, che vita ci aspetta? Che società dovremo disegnare? Che cosa dovranno fare le industrie per soddisfare questo consumatore (alla luce di Amazon, chiamarlo individuo o cittadino ci fa quasi tenerezza)?
Il libro ha ormai cinque anni sulle spalle se contiamo, oltre alla data di pubblicazione, un anno e passa di ricerche per scriverlo; eppure, sembra esso stesso dotato di una propria longevità. Molte delle cose che ho scritto allora stanno accadendo oggi in maniera più visibile ed evidente, compresa una pandemia di cui non sono per nulla orgoglioso della previsione. E il fatto stesso che siamo oggi a discutere di longevità su queste pagine ci conferma come il dibattito stia evolvendo. Prevedo il 2024 come l’anno del definitivo boom della materia: da nicchia per adepti, a discussione mass-mediatica multicanale.
Ha detto che l’Italia può giocare un ruolo fondamentale nella ricerca e fare da apripista in tema Longevity. In che modo?
Beh, siamo il secondo Paese al mondo con il più alto tasso di invecchiamento dopo il Giappone e il secondo per aspettativa di vita al netto dei micro-Stati. Forse ne sappiamo qualcosa sulla faccenda? E lo dico fuori dallo stucchevole marketing delle Blue Zones e affini. In più abbiamo tra i più bravi ricercatori al mondo grazie a un sistema educativo tanto denigrato quanto oggettivamente valido. Il fatto che alla politica e a una classe dirigente capace di negare la propria stessa vecchiaia, alla permanente ricerca di una narrazione giovanilistica e modelli Silicon-Valley-Like, non passi per la testa di investire in mercato e ricerca e rendere la nostra vecchiaia un valore di industria al pari della moda e del turismo è, a mio modestissimo avviso, la più grande opportunità sprecata del nostro tempo. E credo che siamo già quasi in ritardo rispetto ad altri paesi, la Spagna o l’Inghilterra, ad esempio, che si stanno organizzando in questo senso.
Secondo lei il nuovo Coronavirus cosa ci sta insegnando, se ce lo sta insegnando, o potrebbe insegnarci in generale e nello specifico in ottica healthy ageing? Stiamo toccando tutti con mano quanto le persone più anziane stiano pagando il prezzo più alto della pandemia…
Ci ha insegnato quello che sapevamo già. Che l’ageismo è forse la discriminazione più bastarda di tutte, perché è dentro il nostro più intimo e profondo impianto culturale, così difficile da riconoscere e quindi da combattere. Riguarda tutte le età, perché, appunto, ha a che fare con l’età, non con “una” età. Eppure, in questa fase storica, fa danni devastanti soprattutto verso le fasce d’età più avanzate che difficilmente si potranno riprendere dagli effetti di queste discriminazioni. Un esempio. L’ageismo è quel bias inconscio che ha fatto dire al Governatore della Liguria Toti come gli anziani siano “non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”. Al di là delle smentite d’obbligo, il tweet non ha fatto altro che rappresentare quello che tutti inconsciamente pensiamo. Lo stesso bias che ha fatto sì che, ad inizio pandemia (e ancora oggi), la parola “anziano” fosse associata a “fragile”, poi a “inutile” e, infine, al terribile “sacrificabile”. Un filotto a cui nessuno ha davvero opposto una ragione, anzi. Erano, siamo davvero tutti così vulnerabili, nessuno escluso, da essere confinati per partito preso? Consiglio di riascoltare Lella Costa all’epoca per riflessioni meglio espresse delle mie. Ed è, forse, quello stesso bias che non ci ha fatto battere ciglio durante il discorso di fiducia di Draghi.
Cosa ne pensa del Piano nazionale di ripresa e resilienza del Governo? Affronta in modo nuovo, innovativo il futuro e le connesse sfide oppure no?
Cosa è mancato dal discorso di insediamento del nostro nuovo presidente del Consiglio? È mancata la parola “anziani”. Non viene mai citata. Dice Draghi: “Dobbiamo (…) riconoscere i tanti primati, la profonda ricchezza del nostro capitale sociale, del nostro volontariato, che altri ci invidiano”. Ma cos’è quel capitale sociale? Chi è quel capitale sociale? È solo quello dell’Italia “produttiva” – perché tutti gli altri sono dei succhiatori di assistenza, volontariato, energie? Non esiste forse anche un altro capitale sociale che forse meriterebbe, almeno, una menzione? Dove l’abbiamo messo? Abbiamo provato a capitalizzarlo, sfruttarlo, rimetterlo in circolo, potenziarlo, difenderlo, celebrarlo? Quanta intelligenza stiamo buttando nella spazzatura in nome di una difesa della retorica politica iper-giovanilista? E, soprattutto, cosa vogliamo farne di quel capitale nei prossimi venti-trent’anni? Vogliamo ascoltarlo solo quando fa qualche exploit mediatico come il novantanovenne citato da Riccardo Luna in un recente articolo sui vaccini?
Viene da pensare che, siccome il titolo di questo strumento finanziario sia “Next Generation EU”, preveda l’obbligo di associare la parola “next” ai “giovani” e, di conseguenza, bandire la parola “vecchi” dalla narrativa. Sembrerebbe proprio che la vecchiaia non sia prevista dal futuro. Come se guardassimo solo un avanti ideale, solo l’arrivo della gara. Come se il mondo iniziasse tra trent’anni. Ma “chi” sono, anche, le “next generazioni”? Alla luce del fatto che vivremo ben più a lungo e in salute nei prossimi decenni, forse dovremmo riconsiderare le segmentazioni generazionali fatte fino ad oggi e, di conseguenza, i loro bisogni, i loro desideri e – certo – le loro capacità e conoscenze.
Per dire, l’ultima fetta dei giovani Boomer andrà in pensione (io sono quasi certo che non ci andrà, ci risentiamo tra vent’anni sul tema) dopo il 2030. Quindi queste donne, questi uomini che sono considerati anziani già oggi da parte della narrativa dello stereotipo in quanto, appunto, Boomers (vedasi a tal proposito il meme #OKBoomer) in realtà hanno ben titolo di essere anche loro una “next-generation” in quanto, ricadendo nel concetto di produttività fino alle pensione – quando mai accadrà – quadrano nel “teorema di Toti”.
Dove stiamo mancando le opportunità? In primo luogo – a mio modesto avviso – nel non riuscire a sviluppare una narrativa di incontro, anziché di dicotomia generazionale. In secondo luogo, quando concentriamo l’attenzione su un concetto di Sanità che è basato sull’oggi e, ovviamente, sull’emozione della pandemia. E, di conseguenza, in terzo luogo: proprio perché, dopo il Giappone, abbiamo già oggi il secondo serbatoio più ricco al mondo di anziani (in progressione), perché non coinvolgerli anziché escluderli?
Di cosa, secondo lei, ci sarebbe più bisogno, oggi come oggi e in ottica futura, per una società più saggia, “wise” appunto?
Rimettere – senza nemmeno un secondo di dubbio – le persone al centro di tutto quello che immaginiamo e facciamo. Ne parliamo tanto, ma davvero lo facciamo? Disegnare un’etica capace di abbracciare la persona, la società e l’economia di questo momento storico per essere pronti e culturalmente preparati ad affrontare quello che ci aspetta domani su una piattaforma di valori che ci sta sfuggendo di mano senza, mi pare, preoccuparcene troppo. Per dire, è mai possibile ritornare indietro al medioevo delle frontiere e delle divisioni dopo aver cantato un mondo di libero scambio economico e culturale fino all’altro ieri? E, infine, investire nella ricerca e nella conoscenza basata sull’evidenza. Abbiamo i mezzi per farlo, abbiamo gli strumenti, eppure la “popnologia” rimane ancora una pratica orizzontale alla quale è difficile rinunciare e lo dico da grande estimatore dei popnologi di cui abbiamo bisogno per interpretare una grande e importante parte della realtà, tuttavia per restare in tema pandemico, dovrà pur esistere una differenza tra popnologi, virologi o epidemiologi. Io, in 12 mesi di esposizione mediatica della scienza, non l’ho notata.
Vincenzo Petraglia