Nel nostro Paese la maggior parte delle carceri è sovraffollata, degradata e i detenuti trascorrono la giornata senza poter far nulla se non cercare di far passare il tempo. Esattamente il contrario di quanto succede a Bollate
Laureata in Giurisprudenza, ha cominciato a 27 anni a lavorare come vicedirettore dell’Istituto di detenzione di Genova Marassi. In seguito si è occupata del carcere di Eboli, ha tenuto corsi di formazione per la polizia penitenziaria e seguito il recupero di tossicodipendenti nel carcere di Secondigliano. Dal 2002 dirige la casa di reclusione di Bollate dove si applica una forma di custodia attenuata.
Le affermazioni più ricorrenti sulla struttura da lei diretta sono: “la prigione migliore d’Italia” o anche “il carcere dalle porte aperte”.
Me le può spiegare?
Un mio amico diceva: «il carcere migliore è quello dove sono appena passate le ruspe»; in un mondo ideale questa istituzione non dovrebbe esistere e quindi parlare di miglior carcere è un po’ una contraddizione.
Utopie a parte, qui lavoriamo sul recupero e il reinserimento delle persone; è questa secondo me la vera risposta alla domanda di sicurezza dei cittadini.
Qui ci sono detenuti a fine pena (con pene detentive che vanno dai quattro agli otto anni), che hanno consapevolmente scelto di venire a Bollate; arrivano dalla Lombardia e da tutta Italia. Sono persone non socialmente pericolose, fortemente motivate al reinserimento e quindi a evitare la recidiva. La selezione che facciamo attraverso un “gruppo filtro” e la scelta in prima persona del detenuto, ci consentono di mantenere un livello di sicurezza attenuato, con la possibilità di muoversi ed essere più liberi all’interno del carcere; vivono in celle aperte dalla mattina alla sera, possono trasferirsi da un piano all’altro, mangiano insieme, fanno attività all’aperto, studiano e così via.
A Bollate i detenuti hanno la possibilità di studiare, fare sport, ma anche di lavorare all’esterno.
Si questo è un carcere aperto al territorio da dove ogni giorno escono i detenuti ammessi al lavoro esterno e contemporaneamente entrano educatori, psicologi e decine di volontari. Qui si può sperimentare una realtà molto differente da quella, ad esempio, delle carceri del Sud Italia, c’è una grande interazione con la città, una forte presenza delle istituzioni, del mondo delle imprese e del lavoro che sono molto sensibili. Il carcere dalle porte aperte significa proprio questo: questo portone che pian piano si dischiude e lascia uscire le persone. Del resto non faccio niente di strano, mi limito ad applicare la legge; l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario consente al detenuto di uscire per lavorare e rientrare la sera in carcere.
Ovviamente non tutti possono farlo; dipende dai termini, è necessario che abbiano già scontato un determinato periodo di pena. E ovviamente fuori non c’è lavoro per tutti. Diciamo che riesco a far lavorare all’esterno circa un decimo della popolazione carceraria, un centinaio su mille.
E all’interno invece quali sono le attività svolte dai detenuti?
C’è chi si guadagna la giornata nel call center appaltato da una ditta esterna e chi lavora nella coop Abc di catering (pasti per i detenuti, ma anche pizze e pasticcini che compriamo anche noi operatori, oltre al catering per eventi in città); la Cooperativa Cascina Bollate ha i vivai e la terra qui all’interno, ma fa anche manutenzione del verde all’esterno; c’è la sartoria nel reparto delle donne e la falegnameria. Cerchiamo di fare un circolo virtuoso formazione – lavoro, quindi imparano a fare gli operatori di sala, i cuochi, i giardinieri. Ci sono scuole con corsi di studio che vanno dalle elementari fino all’università; le redazioni dove si fanno i giornali Carte Bollate e Salute in grata; e poi la palestra e la sala musica, il maneggio con 8 cavalli gestito dall’associazione Salto oltre il muro che fa dei corsi per groom e riesce ad autofinananziarsi perché quando vengono i bambini a colloquio a trovare il papà vogliono fare il giro a cavallo, farsi la foto ecc.
Inoltre abbiamo lo Sportello giuridico, un servizio misto, gestito da un gruppo di giuristi, volontari, e da detenuti dell’Istituto. Lo sportello offre gratuitamente consulenza legale ai detenuti che ne fanno richiesta; è un’iniziativa a cui tengo molto, è estremamente educativa per i detenuti.
L’altra iniziativa che mi sta molto a cuore è la Stanza dell’affettività, un monolocale, finanziato dalla Provincia di Milano, dove le famiglie più a rischio, supportate da psicologi, hanno la possibilità di trascorrere una giornata tutti insieme, cucinando, facendo i compiti o giocando con i bambini.
Insomma, il “suo” carcere dalle porte aperte è un modello positivo?
Consideriamo il successo rispetto al problema della recidiva: su 100 casi che sono stati da noi la percentuale si è abbassata dal 19% al 12% .
Perché una cosa è certa: pensare al carcere come a un luogo in cui si prende la chiave e la si butta via, non serve a niente. Invece è importante studiare sempre nuove misure da adottare per evitare la recidiva.
A Bollate chi ha voglia di studiare, di lavorare e accetta le nostre regole ha buone possibilità di trovare un lavoro e reinserirsi nella società una volta fuori. È chiaro però che devono essere intenzionati a cambiare vita: alcuni detenuti guadagnavano in un pomeriggio di spaccio quello che adesso prendono per un mese di lavoro duro.
Per me e per tutti gli operatori questo è un modo di svolgere il nostro compito che dà molta più soddisfazione; anche se poi, alla fine fine quel che bisogna fare è “sperare” nel soggetto. Perché qui, più che altrove, la scelta dipende dalla persona.