In futuro ne sentiremo parlare sempre più spesso, perché il diritto climatico è diventato centrale nella giurisprudenza di tutto il mondo. Facciamo il punto sui contenziosi climatici con il professor Michele Carducci
«L’emergenza climatica ci riguarda tutti. E possiamo difendere la nostra salute e quella del Pianeta anche davanti a un giudice». Le climate litigations (o contenzionsi climatici) passano un po’ in sordina, eppure in futuro ne sentiremo sicuramente parlare di più. Si tratta delle cause che portano la crisi climatica in tribunale, ovvero di azioni legali che chiedono, a governi o imprese e aziende private, il rispetto dell’ambiente e del Pianeta in relazione alle emissioni inquinanti (e non solo). Sul tema abbiamo chiesto il parere di Michele Carducci, professore ordinario di Diritto costituzionale comparato e Diritto climatico presso l’Università del Salento. In particolare ci ha parlato dell’impatto che i contenziosi climatici hanno oggi sulla società e sulle prospettive del futuro.
Professor Carducci come stanno cambiando i contenziosi climatici e perché sono sempre più numerosi?
In primo luogo, bisogna distinguere i contenziosi climatici “strategici” dai contenziosi “comuni” anche climatici. I primi vertono esclusivamente sulla negligenza dello Stato o delle imprese nel realizzare una riduzione efficace delle emissioni di gas serra per l’effettiva mitigazione del sistema climatico. Nei secondi, invece, il richiamo al cambiamento climatico costituisce un argomento ma non il fatto dedotto in giudizio (per esempio, si può contestare un’autorizzazione ambientale, che non ha tenuto conto delle implicazioni dell’attività autorizzata sul riscaldamento globale in corso, realizza un contenzioso “comune” con argomenti “climatici”). I contenziosi climatici più recenti, a partire proprio dalla causa italiana “Giudizio universale”, hanno come elemento determinante dell’azione la situazione di grave pericolo rappresentata dall’emergenza climatica, accertata dalla scienza e dichiarata da numerose istituzioni, inclusa l’Unione Europea.
Quindi le istituzioni, come i governi nazionali, non sono riuscite a prevenire in modo efficace i danni climatici?
L’IPBES, il Panel dell’ONU per le politiche sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, ha parlato di “fallimento istituzionale” proprio perché le principali istituzioni preposte al perseguimento dell’interesse pubblico non solo non riescono a scongiurare questi danni, ma addirittura concorrono a produrli o alimentarli. Faccio un esempio. Si è recentemente scoperto che un terzo dei progetti su carbone, petrolio e gas (sostanze coinvolte nell’effetto serra antropogenico che ci ha portato all’emergenza climatica) emette più gas serra di quanto stimato al momento della loro approvazione ambientale, anche quando l’approvazione risulti legale e legittimata, a monte, da istituzioni democratiche. L’obiettivo della tutela della salute delle persone e dell’ambiente rispetto al cambiamento climatico non è raggiunto nonostante la “trasparenza” della procedura. Ed è così che nei sistemi democratici si moltiplicano i contenziosi climatici in difesa dell’interesse pubblico. Nelle autocrazie, invece, dove la libertà di critica è preclusa e violentemente repressa questo ovviamente non è possibile.
Le cause legali che denunciano la negligenza climatica degli Stati possono avere ricadute positive sull’opinione pubblica e costringere i poteri pubblici a modificare le loro politiche climatiche?
Sicuramente i contenziosi “strategici” assumono importanza anche nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Molto dipende, però, dalla qualità dell’informazione e dalla preparazione dei giornalisti: i problemi climatici ed ecologici richiedono conoscenze scientifiche trasversali, che non si possono improvvisare. Quanto alle modifiche delle politiche climatiche, è chiaro che, se i contenziosi climatici “strategici” si concludono con una condanna dello Stato o dell’impresa ad abbattere le proprie emissioni di gas serra, il cambiamento si ottiene. Attenzione, però: i giudici possono condannare poteri pubblici o privati a fare qualcosa per scongiurare un danno o impedire che prosegua, non costringerli a emanare leggi o a prendere provvedimenti specifici.
I contenziosi climatici spesso contengono rivendicazioni riferibili all’intera collettività, piuttosto che a un singolo danneggiato…
Oggi grazie alla scienza sappiamo bene che il sistema climatico è composto della stessa materia ed energia di cui sono composti ciascun individuo vivente e lo stesso pianeta. Un’unitarietà che è stata ufficializzata con l’espressione “One Health-Planetary Health”, nella quale si riconosce l’ONU e Stati che vi aderiscono: la salute dell’essere umano e quella del Pianeta sono un tutto condiviso e indivisibile. Nel caso dei contenziosi climatici il “caso particolare” e il “problema generale” coincidono. Questo si verifica soprattutto quando sono in pericolo vita e salute. È la stessa cosa che succede, per fare un esempio, quando un palazzo sta per crollare e solo un condomino agisce nell’indifferenza degli altri. Poiché l’emergenza climatica è una situazione di pericolo che riguarda tutti, chi agisce in giudizio per il proprio “caso particolare” contribuisce in realtà a discutere del “problema generale”. La cosa importante è avere la possibilità di andare davanti al giudice».
Le imprese dovranno sempre più tener conto dell’eventualità di essere citate in giudizio per danni climatici? E questo servirà a ridimensionare le pratiche di greenwashing?
Siamo in emergenza climatica. Tutti quelli che hanno contribuito a crearla, dunque gli Stati, che non sono intervenuti efficacemente con le loro decisioni, e le imprese, le cui attività emettono gas serra, hanno il potere-dovere di garantire il neminem laedere, ovvero di non causare danni a nessuno. Questo nuovo scenario incide inevitabilmente sulle pratiche comunicative delle attività di impresa. In questa direzione vanno il Regolamento europeo n. 852/2020, che classifica i contenuti della “eco-sostenibilità” delle attività economiche e la legge italiana del 2015 sulle c.d. “società benefit”. Gli obblighi per le aziende aumentano così come la necessità di rendere conto delle loro politiche ambientali. Cittadini e imprese devono capire che il diritto all’informazione corretta e veritiera (e quindi non a un “greenwashing” di facciata) è loro riconosciuto dalla Costituzione e possono agire per farlo valere, in nome della lotta comune all’emergenza climatica e anche per una concorrenza leale nel mercato che premi imprese davvero “virtuose”.
Con la pandemia da Covid-19 e con la guerra in Ucraina c’è il rischio che la tutela del sistema climatico ceda il passo ad altre urgenze, di più facile presa nell’opinione pubblica?
La pandemia ha reso evidente che cosa può comportare un’emergenza planetaria per la convivenza quotidiana. Quella climatica è un’emergenza diversa e ancora peggiore ma anch’essa senza confini: oggi, forse, possiamo capire meglio che il problema ambientale riguarda tutti e che ci imporrà comportamenti e decisioni diverse dal passato. La guerra in Ucraina, invece, segna una grave regressione. Siamo ripiombati nel Novecento e rischiamo di rimanervi intrappolati, nelle parole e nelle azioni, dimenticando le esigenze di tutela del clima. Del resto, il nostro cervello, per quanto “sapiens”, resta “istintivo” di fronte al pericolo: se il pericolo è imminente e istantaneo – come la guerra – l’“istinto” della sopravvivenza immediata prevale. Purtroppo per noi, per far fronte all’emergenza climatica è invece necessario saper costruire il futuro in modo più saggio e consapevole, meno istintivo e riuscire ad avere una visione più a lungo termine, meno legata alle emozioni e alle paure del momento.
Lucia Fino