L'architetto Luigi Centola è impegnato in progetti di riqualificazione di beni confiscati alla camorra. Le intimidazioni non mancano, ma lo Stato e i cittadini ci sono
L’architettura sostenibile si attua anche nei territori confiscati alle mafie. Luigi Centola da anni progetta nelle terre dei clan camorristici, attivando iniziative in grado di coinvolgere la popolazione. L’architetto, titolare dell’omonimo studio pluripremiato, è anche direttore della Scuola di Architettura NIB, acronimo di New Italian Blood, “nuovo sangue italiano”. «È un’idea nata nel 2000 mirata al rinnovamento del mondo dell’architettura valorizzando i giovani talenti nazionali, cui dedichiamo ogni anno un premio che riconosce anche i paesaggisti e organizziamo una mostra itinerante in tutta Italia: è un’occasione per i progettisti “in erba” di far rete, sviluppando opportunità di collaborazioni reciproche», spiega Centola.
NIB è anche un’organizzazione attiva in Italia e all’estero finalizzata a realizzare progetti sostenibili, in senso ambientale ed economico, «a creare un ponte tra mondo universitario e mondo del lavoro, attivando il Master Architettura|Ambiente, il quarto dei quali partirà il prossimo ottobre. È anche una proposta aperta a privati e a Comuni che vogliano sperimentare progetti soprattutto legati alla riqualificazione urbana e paesaggistica».
Uno dei riconoscimenti più prestigiosi ottenuti dallo studio Centola & Associati è l’Holcim Award per il piano di recupero della valle dei mulini di Amalfi «”Waterpower”, iniziato dieci anni fa, è caratterizzato da sostenibilità economica e sociale, d’impronta mediterranea». Si tratta di un premio che valorizza principalmente l’idea ecologica e storica di riutilizzo della risorsa acqua alla base del progetto. E tra le idee sviluppate nell’area casertana c’è anche la Fattoria didattica, denominata “Mosaico Vegetale”, che verrà realizzato entro il 2018 a Santa Maria La Fossa recuperando un terreno confiscato alla camorra. Un progetto ampio che comprende anche l’idea di incubatori di start up innovative, immersi nel verde. «Abbiamo avviato tre anni fa quella che reputo un’opportunità sociale e professionale», iniziando poi una collaborazione con Agrorinasce, Agenzia per l’innovazione, lo sviluppo e la sicurezza del territorio, «progettando il riuso di una quindicina di beni confiscati ai clan camorristici insieme con i giovani architetti e ingegneri del Master NIB, mettendoli a disposizione delle comunità».
Quali peculiarità ha un progetto architettonico attuato su beni confiscati alle mafie?
Innanzitutto si tratta di un progetto speciale perché va incontro a una serie di aspetti da considerare oltre che di opportunità da mettere in campo, la prima delle quali è il coinvolgimento della popolazione, individuando una modalità capace di innescare una partecipazione alla vita stessa dell’opera, che simboleggi la collaborazione tra popolazione e gestore del bene confiscato, anche attraverso forme di economia sociale. Nel caso della fattoria didattica, l’idea del mosaico vegetale è dato dalla sua stessa composizione: 2700 vasetti in bioplastica – tanti quanti i cittadini del paese – installati sulla facciata e su una parte del tetto della fattoria, con piccoli frutti o erbe aromatiche da coltivare, trasformare e vendere, realizzando così economia sociale. Il suo significato è anche un messaggio simbolico rivolto alle mafie: lo Stato c’è, ma c’è anche la cittadinanza, che partecipa attivamente.
Avete mai subito intimidazioni, occupandovi di “beni sensibili”?
Le intimidazioni delle mafie sono all’ordine del giorno. Vengono messe in atto in diversi modi: incendi dolosi, atti vandalici e, qualche volta, minacce durante i sopralluoghi. Ma non spaventano: lo Stato negli ultimi anni ha dato prova di essere presente sul territorio e di aver ripreso il controllo generale. Occorre dimostrarsi sufficientemente forti per affrontarle. Ma soprattutto, è basilare il controllo rigoroso della filiera degli appalti e dei relativi bandi, svolta con attenzione da Agrorinasce e dai comuni per evitare infiltrazioni camorristiche. È questo ciò che preoccupa di più: la “mafia liquida”, quella dei cosiddetti colletti bianchi, che vuole entrare negli appalti dei lavori di riqualificazione o nella gestione dei beni comuni.
Ancora oggi non c’è una codificazione precisa che caratterizza l’iter teorico-progettuale dei beni confiscati; dalla nostra parte, partendo dall’esperienza fatta finora, sistematizziamo gli aspetti caratteristici per farne tesoro nelle progettazioni future.
Cosa caratterizza particolarmente il vostro lavoro, specie quello di riqualificazione e di rigenerazione?
Possiamo definirlo in tre punti: il primo è legato alla volontà di creare programmi funzionali, in grado di autosostenersi economicamente; il secondo è creare un evento architettonico emozionale e capace di far venire voglia di partecipare e contribuire al riscatto del territorio e creare senso di appartenenza. Infine, privilegiare la riqualificazione alla ricostruzione, sovrascrivendo architettonicamente lo spazio e i materiali senza cancellare la memoria del bene. Conservare il ricordo, anche negativo, come nel caso delle ville o delle aree cementificate dai boss, in alcuni casi è utile.
L’architettura può essere considerata uno strumento di speranza?
Da sola non può darne; il lavoro e l’emancipazione economica possono farlo. L’architettura può regalare però emozioni e voglia di partecipare.
Come entra in gioco l’ecosostenibilità nei vostri progetti?
La sostenibilità ambientale si esplica dando un forte accento alla connotazione passiva, intesa come soluzioni in grado di massimizzare l’efficienza energetica. Siamo nel Sud Italia, in area mediterranea, quindi gli elementi e le tecniche consolidate di sostenibilità vanno intese soprattutto nell’attuare soluzioni di questo genere come i cappotti termici, il miglioramento degli involucri. Va perseguita la volontà pragmatica di puntare al risparmio energetico, oltre che alla durevolezza, al comfort e all’accoglienza.
Spesso si parla di degrado del paesaggio, problema che riguarda anche il Meridione. Dove occorre partire per rimediare a questa situazione?
Nel caso dei beni confiscati spesso ci si trova di fronte a vere e proprie lottizzazioni in cui sorgono ville il più delle volte abusive. Quando le condizioni ci sono meglio evitare di demolire specie se si possono riutilizzare gli edifici ai fini di economia sociale, praticando il riuso a costi minimi. Riguardo la cura del paesaggio ricordiamo bene in Campania il “mostro di Fuenti” e le “torri di Pinetamare”, due dei più noti e controversi casi italiani. Bene, vent’anni dopo essere stati demoliti, per diversi motivi, entrambi i siti non sono stati ancora recuperati. Sarebbe stato forse meglio rigenerare; solo nei casi dove vi sia insicurezza sismica o eccessiva onerosità, è più opportuno demolire e ricostruire sullo stesso sedime senza consumare suolo. In ogni caso è consigliabile pianificare caso per caso senza pensare a priori che le demolizioni possano essere la soluzione migliore o più veloce.
Quale insegnamento deve fornire l’architettura per migliorare l’esistente?
Occorre partire da una profonda conoscenza del territorio prima di pensare a qualsiasi trasformazione. Porto a esempio il progetto di recupero delle cartiere di Amalfi. Sono una realtà poco conosciuta persino dagli stessi abitanti. La Costiera amalfitana è molto di più rispetto alle sue pur bellissime spiagge. Il sistema industriale legato alla carta ha una storia plurisecolare, che conta su accorgimenti molto interessanti, a partire dallo spazio idraulico, un sistema di gestione idrica di origine araba unico al mondo. Quindi occorre prestare maggiore attenzione a valorizzare l’esistente, recuperando quanto c’è di speciale, accanto all’attenzione al paesaggio, eseguendo progetti durevoli, quanto meno possibile dispendiosi per dare lustro al paesaggio e al suo patrimonio storico, artistico, naturalistico. Perché per il Sud Italia, in special modo, il turismo è il vero fulcro per il suo sviluppo duraturo e sostenibile.