La sanità contribuisce all’'impatto ambientale nel mondo, in particolare l’abuso di farmaci. Serve lavorare a una maggiore sostenibilità, a partire dalle case farmaceutiche fino agli utenti finali, spiega Francesco Bortoluzzi, segretario nazionale dell’Associazione Italiana Gastroenterologi e Endoscopisti Digestivi Ospedalieri, fornendo raccomandazioni utili
La sanità, in particolare l’over treatment, ovvero l’abuso di farmaci, è responsabile del 4-5% circa dell’impatto ambientale nel mondo. È un problema causato da diversi fattori, tra questi il consumismo sanitario e la facilità di accesso a molti farmaci. Tali sostanze hanno serie conseguenze sugli ecosistemi. Francesco Bortoluzzi, segretario nazionale dell’Associazione Italiana Gastroenterologi e Endoscopisti Digestivi Ospedalieri (AIGO), e dirigente medico di gastroenterologia dell’Azienda Ulss 3 Serenissima di Mestre-Venezia afferma in proposito: «l’impatto di queste sostanze è molto importante e in parte anche sottostimato. Per avere la misura del fenomeno è necessario effettuare analisi e ricerche, ma non sempre c’è interesse ad approfondire questi aspetti».

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Abuso di farmaci in Italia
A questo fenomeno, di portata mondiale, contribuisce anche l’Italia. Nell’ultimo rapporto OsMed – Agenzia Italiana del Farmaco, su “L’uso dei farmaci in Italia”, basato su dati 2023, registra una spesa farmaceutica nazionale totale, pubblica e privata, pari a 36,2 miliardi di euro, in aumento del 6,1% rispetto al 2022. Nel 2023 la categoria degli antibiotici ha registrato una spesa pubblica complessiva pari a 822,6 milioni di euro, in aumento del 5,8% rispetto all’anno precedente. Si legge che quasi quattro persone su dieci hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici.

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«Quello degli antibiotici è un problema emergente della nostra sanità – aggiunge Bortoluzzi –. Sia quando i medicinali sono utilizzati negli allevamenti, sia quando li assumiamo indirettamente attraverso l’alimentazione. Questi residui finiscono nel terreno, anche a causa di processi di smaltimento inadeguati, dove sono assorbiti da batteri che ne diventano così resistenti e possono contaminare l’uomo».
Dottor Bortoluzzi, di chi sono le responsabilità di questo impatto ambientale da parte della sanità, di cui l’abuso dei farmaci è parte integrante?
«Se si osservano i dati mondiali, ci si rende conto di come la probabilità di ritrovare farmaci nell’ambiente è direttamente proporzionale a quanto vengono cercati. Il problema è sì globale, ma è anche peculiare: ci sono luoghi in cui si cercano alcuni farmaci, altri in cui se ne cercano altri. In Africa, per esempio, si è individuato l’impiego massiccio di antibiotici, che trovano impiego nell’allevamento intensivo. Nei Paesi occidentali troviamo un po’ di tutto, perché usiamo un’ampia gamma di farmaci e anche perché, forse, “si cerca un po’ di più”».
Secondo lei, è necessario effettuare analisi e ricerche, ma non sempre c’è l’interesse ad approfondire questi aspetti. Chi dovrebbe essere chiamato a questo compito?
«Abbiamo un Servizio Sanitario Nazionale attivo e funzionante, per nostra fortuna. Credo che su alcuni specifici temi, come quello legato all’abuso di farmaci, dovrebbe essere materia di ricerca dello stesso SSN, non lasciando il monitoraggio unicamente nelle mani dei portatori di interesse».
Lei ha segnalato che per alcune patologie esistono farmaci alternativi altrettanto efficaci con un minor impatto ambientale. Su cosa occorre lavorare in questo senso?
«Innanzitutto, occorre puntare su una prescrizione mirata di farmaci. Porto l’esempio, nel mio campo medico, degli inibitori di pompa protonica, farmaci molto prescritti perché funzionano bene. Ma, è bene dire che funzionano nel momento giusto, al dosaggio e per il tempo opportuno. Se si abusa, il discorso cambia sensibilmente. Ci sono delle situazioni in cui gli inibitori vanno prescritti e pazienti con patologie tali che li dovranno usare anche tutta la vita, se necessario. Ci sono situazioni in cui, invece, può bastare un piccolo ciclo, mentre in altri casi possono essere prescritti farmaci di derivazione meno chimica, utili per gestire dei sintomi saltuari, modesti, meno significativi. Si sta facendo strada, in gastroenterologia e non solo, la deprescrizione, ossia un processo sistematico che porta alla sospensione o alla riduzione della posologia di un farmaco inappropriato per quel paziente. Contare su farmaci più semplici, meno impattanti sull’ambiente e che possono controllare i sintomi, è un’ottima scelta.
Oltre a sottolineare che, per la cura di alcune patologie, esistono farmaci alternativi altrettanto efficaci e con un minor impatto ambientale, va anche detto che sin dalla progettazione e produzione, istituzioni e aziende dovrebbero tenere in considerazione i rischi per l’ambiente. Spetta in una seconda fase ai medici aumentare l’appropriatezza delle prescrizioni e favorire un uso responsabile dei farmaci. Infine, la raccolta e lo smaltimento dei farmaci avanzati o scaduti è fondamentale nel garantirne il corretto recupero».

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Oggi c’è una maggiore sensibilità al realizzare medicinali a minore impatto ambientale?
«È in atto una profonda riflessione su tale argomento. Premesso che la chimica ci viene incontro, fornendo più strumenti utili per affrontare malattie e per garantire una maggiore longevità, si fa presto a passare dall’uso coerente all’abuso dei farmaci. Il problema, più complesso, non riguarda solo i farmaci, ma anche i dispositivi medici in senso lato. Pensiamo al packaging. Nell’epoca dell’intelligenza artificiale, siamo ancora pieni di scatole e bugiardini, quando invece basterebbe un QR code per risparmiare carta e confezioni riutilizzabili. Negli Stati Uniti, da tempo i medici prescrivono ai pazienti farmaci per un tot numero di giorni, assegnando un tot numero di pastiglie. Da noi, invece, c’è il problema dei medicinali scaduti o eccedenti. Se si produce una confezione da 25 pastiglie e se ne devono assumere venti, l’esubero c’è e non sempre viene conferito nel posto giusto, venendo smaltito in maniera scorretta, a tutto svantaggio dell’ambiente».
Data la situazione, cosa occorre fare per rimediare, a livello di aziende farmaceutiche, medici e consumatori finali?
«Occorre lavorare su una diversa cultura. Porto l’esempio di Choosing Wisely, progetto promosso da Slow Medicine in analogia a Choosing Wisely USA, giunta anche in Italia. Ha l’obiettivo di favorire il dialogo dei medici e degli altri professionisti della salute con i pazienti e i cittadini su esami diagnostici, trattamenti e procedure inappropriate in Italia, per giungere a scelte informate e condivise. Il motto chiarisce bene in che direzione andare: “fare di più non significa fare meglio”. Il progetto si basa sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura e sulla partecipazione dei pazienti e dei cittadini, garantendo una maggiore consapevolezza da parte di tutti e sull’impegno corale. Ci sono diverse azioni, alcune più facili, altre più complesse. Personalmente, sarei già contento se fossero attuate quelle facili».
Come AIGO, su cosa state lavorando e quali iniziative intendete attuare quest’anno, anche per ridurre l’impatto ambientale e l’abuso dei farmaci?
«L’Associazione Italiana Gastroenterologi e Endoscopisti Digestivi Ospedalieri conta su un gruppo che si occupa di green gastroenterology. Abbiamo già svolto dei lavori, pubblicando paper pubblicati sulla sostenibilità in endoscopia e gastroenterologia che hanno tutta una serie di ramificazioni. Stiamo lavorando anche su azioni informali, magari puntando su una certificazione “verde” del nostro lavoro, individuando dei livelli di sostenibilità delle varie unità operative. Si deve cominciare dalle azioni più semplici. L’idea è di far crescere una maggiore consapevolezza sul tema, ispirandoci o mettendo in atto azioni già realizzate a livello internazionale».
Andrea Ballocchi