Wise Society : Paolo Boggi: sotto il vestito niente
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Paolo Boggi: sotto il vestito niente

di di Francesca Tozzi
10 Giugno 2010

Un abito non fa il gentiluomo. Ma la Costituzione sì. Così il titolare di uno storico marchio del tessile milanese ne regalava copie ai clienti. E nel suo ultimo libro parla dei poveri di spirito. Uomini dediti a ostentare la forma. E a dimenticare il contenuto

Boggi è uno storico marchio milanese di abbigliamento maschile. Ha attraversato le mode senza mai rinunciare al piacere di un taglio classico o di una buona stoffa. Ma è anche il nome del suo fondatore, Paolo Boggi, che ha fatto parlare di sé anche per la sua visione lucida del sistema moda e per iniziative assai originali, come quella di distribuire nei propri negozi copie della Costituzione italiana perché, a detta sua, “La costituzione è il più importante abito di società, un capo che non può mancare nel guardaroba di un gentiluomo”. Dopo “Un abito da leggere”, con il suo nuovo libro “Poveri con la Griffe” il grande imprenditore del tessile torna a scagliarsi contro il mercato del lusso da ostentare, criterio unico di affermazione sociale, con la sua rosa di status symbol che da almeno tre decenni condiziona l’immaginario degli italiani.

 

Paolo Boggi, Sembra che non riusciamo a rinunciare all’abito firmato, nonostante la crisi…


Sì, ma non è solo questo. Quando nel mio libro parlo di poveri mi riferisco ai poveri di spirito, alla mancanza di senso, di cultura, di contenuti. Ci si lascia abbagliare da una patacca. Un jeans non può costare come un gioiello. Un jeans, un abito, un paio di scarpe sono beni di largo consumo, necessari, non stiamo parlando di haute couture… Si attribuiscono a questi prodotti valori e significati che non hanno in termini di gratificazione e riconoscibilità sociale; e così chi li compra si carica a sua volta di prosopopea e arroganza. È un panorama falso e patinato che contribuisce a nascondere la realtà di un Paese sempre più incattivito e corrotto. Un Paese con un alto tasso di analfabetismo di ritorno.

 

Qual è la colpa principale del fashion system?


Non si può speculare in settori basilari come l’alimentare e il tessile: nutrirsi e vestirsi sono bisogni antichi come il tempo, bisogni reali. Eppure molte persone non si sentono importanti se non hanno una certa marca addosso da esibire: è una falsa cultura. Così anche per vestire degli abiti banali, quotidiani, necessari a lavorare in certi contesti, come un vestito di buon taglio per andare in ufficio, gli italiani devono spendere per forza dai 600 euro in su. O devono fare dei sacrifici perché un certo famoso imprenditore fa scarpe che valgono 12 euro e te le propone nell’allure sofisticata e suggestiva di un negozio chic pensando così di farti sognare. Ma è un sogno che costa 300 euro. Ci sono marchi che importano capi dalla Cina a 40 euro e li rivendono a prezzi alterati arricchendosi grazie a margini spaventosi mentre l’artigiano fa la fame. Che genere di made in Italy stiamo sostenendo?

 

E i consumatori in tutto questo?


Il consumatore italiano non sa analizzare i costi di quello che compra, non sa davvero cosa sta comprando, è immaturo e assoggettato alla sacralità del sistema moda in ragione di una rappresentatività che gli attribuisce. Ciò che fa parte del sistema diventa, così, desiderabile e poi indispensabile per la felicità ma è una falsa cultura che la pubblicità e certa stampa hanno contribuito a creare. I prodotti devono essere al servizio dell’uomo, aiutarlo, dargli dei benefici ma non violentarlo. Una borsa da 20 euro non può arrivare a costarne 500: le borse hanno una loro funzione e già si usavano nell’antichità, servono a contenere degli oggetti.

 

Cosa pensa di chi acquista prodotti contraffatti alle bancarelle?


Se una persona sceglie di comprare un falso lo fa perché gli ha dato un certo valore sulla base di quello che vuole spendere; quella borsa è falsa perché usa il nome di qualcun altro ma non lo è nel prezzo. Quel “nome” che gliela vende a 300 euro è il vero falso perché carica il prodotto di un valore che non è reale. E non andrebbe mai fatto sui beni necessari. Con il mio libro voglio denunciare questa cultura fasulla per cui si finisce con l’ignorare il valore vero di prodotti veri solo perché non c’è un nome importante sulla confezione. Valori fasulli, cultura fasulla, soldi fasulli: quelli che ha creato la finanza e che hanno portato alla paralisi del Paese. A questi io contrappongo il buon senso, i contenuti, la capacità di valutare il giusto prezzo delle cose. Il nostro Paese ha bisogno di produrre ciò che serve in modo proporzionato e accessibile alle famiglie e ai redditi medio-bassi. La ricchezza deve essere da lavoro, non da immagine.

 

Un valore che dobbiamo recuperare?


L’autostima, la coscienza di sé. In questo la crisi ci aiuterà…

 

In che senso?


La crisi attuale sta accompagnando la morte di quei miti di progresso, esasperata cura estetica, ricchezza a ogni costo su cui abbiamo sviluppato il precedente modello economico. Quel falso valore che droga il sistema moda, quel valore fatto di immagine, visibilità, esclusività, che la gente vuole avere a ogni costo, deve sparire. Io capisco una rateizzazione per l’acquisto della casa ma non per rifarsi il seno o possedere una macchina di lusso. La gente deve ricominciare a comprare gli abiti che le piacciono, che la appagano valutandoli per quello che sono senza più affidarsi a un abito o a un oggetto griffato, senza più costruire la propria identità sull’altro da sé. Bisogna riscoprire quello che si è davvero, senza distrazioni. È un cambiamento che secondo me è già in atto…

 

Come vede il futuro?


Per vederlo è necessario sgombrare il campo dai falsi miti, dalla non civiltà e dal non rispetto delle regole. Dobbiamo smetterla di delegare sempre tutto: ai santi, al diritto, al governo, perfino alla moda. A che serve il diritto se poi lo si aggira e si viene comunque considerati dei galantuomini? Siamo noi che ci dobbiamo condannare. Vedo un futuro dove ci si impegnerà in prima persona per ottenere le cose, si comprerà quello di cui si avrà davvero bisogno e, in caso contrario, si tratterà comunque di un desiderio genuino e non indotto da un’ansia di autoaffermazione attraverso gli oggetti. Ecco un altro valore: la genuinità dei desideri e dei progetti contrapposta all’economia per emulazione e all’esecuzione automatica dei comportamenti che genera conformismo.

 

Siamo stati omologati in tutto, lei dice…


Si. Pensi a quelli che fanno sacrifici per andare in vacanza in posti di lusso perché ci vanno tutti e poi tornano con la faccia depressa o delusa, già stanchi. Dobbiamo trarre gratificazione da valori diversi, quelli che ci vengono dati naturalmente e che non costano nulla, “una tazza di caffé con gli amici” per dirla alla Olmi. Sembra un’utopia perché il nostro modello di sviluppo è difficile da sradicare ma è evidente che non sta più in piedi: quella che era la massima potenza a livello mondiale, gli Stati Uniti, è oggi mantenuta dagli aiuti economici dei cinesi tramite gli istituti di credito. Tra 20-30 anni rivaluteremo la qualità dell’uomo e del tempo libero, e ci sarà gioia vera. Ho molta fiducia nelle giovani generazioni.

 

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