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Gianni Pavan: «Con la bioacustica ascolto il suono della natura per salvare gli ecosistemi»

di Rosa Oliveri
14 Novembre 2019

Il docente di Bioacustica all'Università di Pavia studia l'importanza del suono e del silenzio per la vita e la tutela dell'ambiente

Il canto delle balene, i bramiti dei cervi in amore, gli ululati dei lupi, il frinire delle cicale, ma anche il respiro della foresta. Di questo concentrato di suoni ed emozioni si nutrono da fine anni Settanta gli studi di Gianni Pavan, docente di Bioacustica all’Università di Pavia. «Oggi c’è più attenzione per l’ambiente – afferma – e si dà valore a quiete e silenzio».

gianni pavan

Il docente di bioacustica all’università di Pavia Gianni Pavan, Foto: gianni.pavan/facebook

Professor Pavan, cosa si scopre ascoltando la natura?

L’ambiente naturale vive grazie ai suoi suoni. Attraverso essi gli animali comunicano, si
corteggiano, si riproducono, trovano cibo ascoltando. Il suono, dunque, non è un’espressione vana di gioia come credevano i naturalisti dell’Ottocento, ma è funzionale alla sopravvivenza delle specie e degli ecosistemi. L’inquinamento acustico ha un impatto negativo. Ancor più in ambiente acquatico.

Perché?

Il suono in acqua si propaga molto meglio che in aria. Se pensiamo che le megattere, durante il corteggiamento si ascoltano a 400 chilometri, ogni rumore da traffico commerciale navale o da sonar militari minaccia la loro esistenza. In terraferma, la stessa comunità europea conta 10mila decessi l’anno per il rumore da trasporti, che è un sottofondo costante della nostra vita.

Come sono nati i suoi studi?

All’università mi sono interessato alla Bioacustica, per la mia passione per il suono, la musica, gli strumenti. Così, negli anni ‘80, la tesi sull’analisi al computer del canto degli uccelli.

Com’è evoluta la Bioacustica?

Nasce come complemento dell’etologia per studiare la dimensione comunicativa negli animali; allargando il suo ambito di azione allo studio degli habitat e al monitoraggio della biodiversità (ecologia), diventa ecoacustica. Il fine è studiare i paesaggi sonori per la loro conservazione, tutela, gestione e valorizzazione. Un tema su cui sempre più puntano governi e cittadini.

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Secondo Gianni Pavan dalla registrazione dei rumori nei boschi con strumentazioni elettroniche esce un’immagine dettagliata dell’inquinamento acustico e delle attività biologiche, Foto iStock

Cos’è un paesaggio sonoro?

È l’insieme dei suoni che interagiscono in uno stesso ambiente; non solo ci trasmettono piacevoli sensazioni, ma rappresentano la biodiversità e la ricchezza degli ecosistemi che ci circondano. Per questo organizziamo escursioni o workshop di ascolto.

Un esempio di paesaggio sonoro?

Il più vasto è la foresta amazzonica. Interessanti anche la prateria alpina, l’alta montagna, la macchia mediterranea. E poi c’è il mondo subacqueo.

Quello che segue più da vicino?

Negli studi ho evidenziato che il rumore di grande potenza di sonar militari o ricerche
petrolifere può essere correlato allo spiaggiamento e alla morte dei cetacei. Così dal 1998 le Marine militari seguono specifiche linee guida e così anche le attività civili, con risvolti positivi. La stessa industria navale tende a produrre navi sempre più silenziose.

Com’è cambiata la strumentazione in uso?

Prima il ricercatore andava per boschi o campagne con il microfono da accendere di volta in volta. Oggi poniamo registratori sugli alberi, a due-tre metri d’altezza, per due, tre mesi, anche per un anno. Alla fine, recuperiamo i dati che ci offrono risultati diversi ora per ora, stagione per stagione. Novità importanti anche per l’ambiente marino. Per venti anni nel Mediterraneo abbiamo trascinato idrofoni con barche a vela o navi oceanografiche, per 15-20 giorni di navigazione. Oggi ci affidiamo a registratori autonomi depositati sui fondali e recuperati dopo due-tre mesi. Da lì esce un’immagine dettagliata dell’inquinamento
acustico e delle attività biologiche. I software sono potentissimi: elaborano i dati di intere
giornate fino a scendere a pochi secondi. Trasformati in immagini grafiche, i suoni, poi, vengono distinti per specie, in base alla specifica impronta vocale, riconoscibile all’orecchio degli studiosi, ma anche dei cacciatori.

Quanti ricercatori vi lavorano?

In Italia una decina, perché l’argomento è nuovo e di nicchia. E mancano fondi. Registriamo un paesaggio sonoro per mesi o anni e studiamo una mole enorme di dati. Così capiamo come evolve l’ambiente acustico anche in base all’impatto dell’attività umana e il suono di insetti e animali offre una diagnosi su qualità e ricchezza di ogni
ecosistema.

Solo di recente, dunque?

Dal 2000 si è compreso che il mondo dei suoni è essenziale all’ecosistema, quindi viene studiato, controllato e protetto. Il suono è diventato un parametro ecologico. Un monitoraggio permanente si fa in tutti i parchi degli Stati Uniti.

E in Italia?

In collaborazione con i Carabinieri, reparto Tutela della Biodiversità, dal 2014 abbiamo un progetto pilota con registratori nel cuore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, nella Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino, patrimonio Unesco, tra Toscana e Emilia e inaccessibile all’uomo. Essa rappresenta il modello ideale per gli studi sulla biodiversità. Altre sperimentazioni anche in Veneto dal 2009.

Ma un ambiente naturale malato che segnali manda?

Quando diminuiscono i suoni c’è da preoccuparsi. Se un bosco è silenzioso a primavera; se prima si ascoltavano 50 specie diverse e ora solo 40; se si registrano suoni di nuove specie. Il cambiamento climatico incide anche sull’equilibrio degli ecosistemi con le bioinvasioni che sono anche “acustiche”.

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