L'amministratore delegato della rinomata azienda di famiglia, racconta la fortunata storia del gruppo piacentino nato dalla passione e dalla creatività dei genitori: Enrico e Adelaide. Valori che ancora oggi accompagnano l'impegno e il successo di un'impresa ormai internazionale, ma sempre attenta alla qualità, alla ricerca e al lavoro in equipe
Elisa Astori, 40 anni, amministratore delegato di Driade è arrivata giovanissima alla testa dell’azienda di famiglia, fondata dal padre Enrico nel 1968 a Fossadello di Caorso (Piacenza). Laureata in architettura, ha studiato con grandi maestri e lavorato con architetti del calibro di Raphael Moneo a Madrid e molti altri. Nel 2001 è stata chiamata in azienda per occuparsi prima della parte creativa-ideativa, poi anche di quella gestionale. È sposata e ha due figli.
Elisa Astori, cos’è Driade?
Driade è un sogno, la passione di una famiglia composta da una giovane donna 21 enne, mia madre Adelaide, suo marito 31 enne e la sorella di mio padre, zia Atonia. Giovanissimi, vanno al salone del mobile di Milano con un’idea vincente e, come per incanto, questo loro sogno molto forte, molto deciso, molto diverso ha da subito un grandissimo successo. Un laboratorio estetico, questo è Driade. Realizziamo gli oggetti che vorremmo ricevere come regalo o regalare noi stessi.
Ci parli di lei, arrivata giovanissima a capo dell’azienda. Che tipo di formazione ha avuto, come è stato l’esordio nel mondo imprenditoriale?
Io sono stata architetto fino al 2001, architetto con la A maiuscola come pensavo fosse diviso il mondo del progetto, tra architetti e designer. Essendo nata in una famiglia idove si faceva design, anche se mio padre e tutta la stirpe erano architetti o ingegneri, ho sempre pensato, come molti studenti di allora, che l’architettura fosse un mestiere, una scienza mentre il design fosse un’applicazione più effimera. Nulla di più lontano dalla realtà, nel senso che tutto è effimero, serio o meno a seconda di come lo si affronta, lo si gestisce, lo si comunica. Prima di immergermi nell’universo di Driade ho avuto la fortuna di studiare con grandi maestri come lo spagnolo Raphael Moneo, figura fondamentale nella mia formazione. Da lui ho imparato non solo a progettare l’architettura ma anche ad apprezzare davvero quella cultura che continuamente va alimentata con la curiosità, i viaggi, le letture. Poi, dal 2001, sono entrata a far parte di un mondo diverso del quale non conoscevo quasi nulla benché io fossi nata nel ’71, tre anni dopo la fondazione di Driade, in una famiglia in cui non c’era differenza tra lavoro, passione e vita familiare.
Chi frequentava la vostra casa allora, che “eredità culturale” ha ricevuto dalla sua famiglia?
Enzo Mari, ad esempio, che ha disegnato il tavolo Frate nel nostro soggiorno ed era sempre da noi nei primi dieci anni di Driade, quelli eroici del Design Italiano. Quando poi abbiamo scoperto Philippe Starck praticamente ci siamo quasi trasferiti a Parigi perché c’era una grande affinità elettiva tra questo genio contemporaneo e i miei genitori. Per noi bambine era una grande felicità e fortuna essere a contatto con una persona così incredibilmente energetica e sorprendente. Ecco l’impagabile eredità che io ho ricevuto dalla mia famiglia: una grande curiosità. Mio padre ancora oggi, benché sia classe 1936, non finisce mai di stupirmi e tra noi due, è lui quello giovane. Adesso che lavoriamo insieme (mia madre non è più con noi, purtroppo) mi rendo conto di quanto sia presente e continuamente alla ricerca di nuove idee: uno che non si ferma mai. Ogni tanto gli ricordo che ormai abbiamo 43 anni di storia e tanti masterpiece fatti con i migliori designer, con i migliori artigiani: dalla plastica alla fibra di vetro, fino alla fibra di carbonio e alla fusione di alluminio, così gli propongo di produrre meno. Lui risponde: “che senso ha il nostro lavoro se non possiamo continuamente sperimentare?” questo è effettivamente il senso di un laboratorio estetico, anche se poi, certamente, siamo anche un’azienda.
Oggi in che direzione spingete la vostra attività? Che ruolo attribuisce al design, ai materiali, al processo produttivo in termini anche di sostenibilità?
Cerchiamo di alimentare il laboratorio estetico con idee e realizzazioni curiose dal punto di vista del design, così come dal punto di vista del materiale perché io credo, e questa forse è una differenza generazionale rispetto agli anni in cui è nata Driade e all’interesse di chi l’ha pensata agli inizi, che la cultura materiale abbia la stessa importanza, e spesso prenda quasi il sopravvento, sul disegno, sulla creatività. Trovo molto interessante non solo un bel segno ma anche un bel materiale ottenuto o lavorato in maniera artigianale o a seguito dell’ultima invenzione tecnica e tecnologica. Due mondi molto vicini, ben diversi ma molto affascinanti entrambi. L’arte del saper fare in scala artigianale e in scala industriale (dai macchinari agli stampi) convivono nel nostro laboratorio e quindi dare voce a materiali molto differenti tra loro, credo sia una delle nostre prerogative per realizzare tutti i sogni.
Tra i designer che hanno collaborato con voi c’è qualcuno che ha segnato in particolare l’attività di Driade?
La poltrona su cui sono seduta è di Philippe Starck. Se devo fare un elenco delle persone che hanno segnato e che segnano la nostra storia e il nostro futuro, Starck c’è senza dubbio, accanto ad Antonia Astori, una delle fondatrici e ancora oggi l’architetto di Driade. Poi sicuramente Enzo Mari che ho già citato e che ha dato, per i primi dieci anni di Driade, un grandissimo contributo sia dal punto creativo che dal punto di vista culturale. Questa poltrona, dicevo, fa parte di una ricerca iniziata con noi nell’86 col la realizzazione del caffè Costes. Lo stesso anno in cui lui, giovane architetto-designer francese, realizzava per il ministro Lang gli arredi del palazzo presidenziale e contestualmente per questo caffè propose uno schizzo a Enrico Astori che ne comprese le capacità. Dietro quel segno si celava un mondo molto grande, molto diverso e molto ricco e iniziò una relazione che a tutt’oggi lo stesso designer francese definisce il suo matrimonio più longevo.
Sono dunque molti i “pezzi” di Starck per Driade…
Ogni anno usciamo con suoi nuovi progetti, dal cucchiaio alla città si potrebbe quasi dire. Con Starck abbiamo fatto una cucina, tanta oggettistica, tanti arredi per interno, tanti mobili outdoor e questa poltrona, l’ultima sua bellissima creatura. Il valore di questa seduta sta anche nel fatto che si attesta all’interno di una ricerca sul tema della sedia che risale alla nostra prima collaborazione con Philippe.
Che cos’ha di particolare questa poltrona girevole?
La sua particolarità sta nel materiale oltre che nel suo disegno. La bellezza però non si ottiene solamente dall’armonia delle linee ma soprattutto dalla cultura materiale. Questo prodotto è molto bello e importate perché realizzato con grande maestria, mettendo insieme tre materiali che non sono così ovviamente avvicinabili. La base è in acciaio, la scocca è in fibra di vetro, materiale non semplice da lavorare, e l’imbottitura interna è niente meno che in capitonné di pelle.
Lei è una manager di ultima generazione, in un periodo di crisi internazionale. Un mestiere non facile…
Ogni tanto anche io mi chiedo come si faccia a essere l’amministratore delegato di un’azienda, un titolo un po’ algido e molto freddo che non definisce esattamente quello che faccio. Sono arrivata in Driade, e comunque nel mondo della creazione, da architetto: quindi con una cultura assolutamente accademica e progettuale, la gestione è un altro mestiere che ho dovuto imparare. Ho avuto la fortuna di essere stata chiamata a lavorare in famiglia dopo cinque anni di libera professione e sono subito corsa perché la passione che avevo respirato fin dalla nascita era comunque molto forte e, come continuo a ripetere, mi era stata trasmessa benché prima non ne fossi consapevole . Quindi dopo dieci anni, otto dei quali trascorsi nella parte creativa dedicata più allo sviluppo del prodotto, alla collezione dei designer per le tre linee di cui è composta Driade, mi sono dedicata all’altro aspetto, the dark side of the moon: non il bello ma tutto ciò che rende il bello possibile, quindi la gestione. In realtà trovo molto interessante anche tutto questo ambito: più si conosce una cosa e più si riesce a gestirla in modo, secondo me, equilibrato e ragionevole. Mio padre quando vede il mio nome associato al titolo “amministratore delegato” dice che è una parolaccia perché lui si considera più artista benché abbia fondato l’azienda e continui a dirigerla. Io invece non penso che sia una parola distonica rispetto a quello che facciamo perché non siamo una galleria d’arte, siamo un laboratorio creativo, però per funzionare abbiamo bisogno di conoscere le regole del gioco e muoverle con etica. Tutto questo naturalmente si combina con una vita familiare e con due figli piccoli, e non è facile. Io però continuo perché la continuità è quello che naturalmente mi viene da perpetuare.
È il mio contributo a Driade. Una continuità intesa sia come ricerca estetica, perché trovo che la ricerca della creatività sia l’unica risposta interessante da dare sempre e comunque a qualsiasi momento di crisi e o di età dell’oro, sia come “modus vivendi”, avendo avuto una famiglia che ha vissuto così fortemente la passione per il proprio lavoro. Questo è il messaggio che trasmetto ai miei figli assieme a molta disciplina, uno dei valori che ho ricevuto dai miei genitori. Loro lavoravano moltissimo, non smettevano mai, non nel senso arido del termine ma piuttosto in quello della passione continua, una passione rivolta anche alle persone, ai designer con cui si trovavano a collaborare, – ricordo la vicinanza ai fotografi Aldo Ballo e Gabriele Basilico, ad esempio- e a tutte le persone che si sono avvicinate a noi e hanno contribuito a questo lungo cammino.
Una dedizione e passione che immagino si rifletta anche nei rapporti con i suoi figli, ma come concilia i ritmi lavorativi con il ruolo di madre?
Con loro non mi comporto sempre allo stesso modo. A volte quando torno a casa mi metto immediatamente a giocare con i bambini, altre volte invece mi siedo in silenzio per dieci minuti e loro mi si arrampicano addosso e si godono la mamma come se fosse del miele, penso che anche questo sia un modo di stare insieme: si può essere attivi, ma si può anche stare insieme lasciandosi un attimo andare, per poi ritornare energicamente presenti. Quindi il senso di colpa, tipico di molte donne che lavorano, è una delle poche cose negli anni ho imparato a lasciare alle mie spalle. Prima l’avevo fortissimo adesso non più perché penso che una mamma che lavora magari non ti può accompagnare a scuola tutti i giorni e forse non c’è tutte le sere, ma quando ti sta vicino ti trasmette tutta la sua joie de vivre come direbbe Starck. Quindi penso che ognuno possa dare un contributo a seconda della vita che fa e questo credo che sia sufficientemente positivo.