Wise Society : James Marcus Bach: La scuola fa male quando non insegna a far fruttare i propri talenti

James Marcus Bach: La scuola fa male quando non insegna a far fruttare i propri talenti

di Vincenzo Petraglia
7 Marzo 2012

Passione e curiosità sono le molle che spingono verso il sapere. Ma molto spesso il percorso scolastico penalizza proprio gli studenti più creativi. James Marcus Bach (figlio dell'autore del celebre romanzo "Il Gabbiano Jonathan Livingston") in un libro molto provocatorio ci spiega perché

La scuola fa male. Il libro che tutti gli insegnanti dovrebbero leggere (Sperling & Kupfer) è il provocatorio titolo che James Marcus Bach, figlio di Richard, il noto scrittore del romanzo Il Gabbiano Jonathan Livingston, ha dato al suo libro nell’intento di offrire una visione anticonvenzionale della scuola che, pur con tutti i suoi limiti attuali, rimane forse uno dei pochi capisaldi della società occidentale.

Una scuola che però, secondo l’autore, non sempre assolverebbe a questo compito perché spesso si trasforma «in una gabbia nella quale alcuni di noi non sono in grado di resistere, anche se ovviamente ciò non significa che essere pessimi studenti equivalga ad essere anche pessime persone.

Quando – dice, infatti, l’autore – diventa una prigione per corpo e mente la scuola fa male perché le idee contano più dei titoli di studio».

E se a dirlo è uno come lui, che a quattordici anni odiava la scuola, a sedici piantò il liceo, a venti era il più giovane manager della Apple e ora è un imprenditore di successo, docente in diverse università statunitensi, non si può non porgli attenzione, quantomeno perché ha dimostrato nella vita come il non aver preso il diploma non abbia per nulla impedito alla sua carriera di volare verso ambiziosi traguardi.

James Marcus Bach: un occhio critico sulla scuola moderna

«Tracciare una propria rotta – scrive Bach – diventa più importante che uniformarsi passivamente a uno standard, scoprire i propri interessi, imparare a coltivarli apre più porte (ed è più gratificante) del fatidico pezzo di carta, anche perché il vero apprendimento non deriva da nozioni astratte ma da ciò che passa per l’esperienza di ciascuno di noi».

Un monito agli insegnanti, colpevoli secondo l’autore del libro di continuare a perpetuare quello “schema chiuso”, imposto dalla scuola, che non sa adeguarsi ai cambiamenti della realtà, che rimane troppo standardizzato e non è in grado di riconoscere e valorizzare la singolarità di ciascun studente per proporgli, di conseguenza, percorsi di apprendimento su misura.

Ma anche a quei genitori che vogliono a tutti i costi che i propri figli frequentino l’università o il liceo, senza mettersi in ascolto veramente delle loro capacità, propensioni, desideri più profondi. Così, di fronte alla classica frase degli insegnanti ai genitori “il ragazzo non si impegna”, sarebbe forse il caso di chiedersi, suggerisce Bach, se i cattivi risultati scolastici non siano soltanto il risultato di un percorso formativo che penalizza in molti casi le abilità e le inclinazioni della persona, attratta e incuriosita magari da altri tipi di conoscenze che se venissero assecondate porterebbero certamente a risultati migliori. Non in termini di semplici voti, quanto di crescita della persona e del reale apporto positivo che ciascuno potrebbe dare alla società se fosse messo nelle condizioni di coltivare le proprie passioni.

Non tutti i grandi della storia erano buoni studenti

La storia d’altronde, e lo stesso Bach porta nel suo libro diversi esempi, è piena di pessimi alunni che poi nella vita se la sono cavata alla grande: da Einstein a Steve Jobs, passando per Charles Darwin. Personaggi a cui evidentemente il metodo scolastico, che troppo spesso soffoca curiosità e inventiva negli studenti, stava stretto e al posto di quello hanno saputo trovare un proprio personale metodo per apprendere e far fruttare al massimo i propri talenti.

«Pur non avendo grande considerazione degli studi accademici – afferma – Darwin, per esempio, si sapeva organizzare benissimo quando si trattava di studiare le cose che gli interessavano, una volta scoperto quali fossero. E anch’io, come lui, da ragazzo sembravo un fallimento nella vita. Ma poi ho trovato qualcosa che sapevo fare bene e all’improvviso sono diventato un uomo capace di lavorare sodo e di imparare alla svelta».

Un sistema scolastico, insomma, che manifesta piena fiducia nelle capacità di apprendimento degli studenti, li sostiene nel loro percorso educativo personale e dà a ciascuno il tempo necessario, che cambia da persona a persona, di far sedimentare nella propria mente quanto appreso, potrebbe portare a risultati migliori per tutti.

«Se volete riuscire nella vita – consiglia Bach ai giovani nel suo libro – cercate qualcosa che vi affascini, e buttatevi anima e corpo. Non aspettate che qualcuno vi insegni come fare: imparerete durante e non dopo, e sarà il vostro stesso entusiasmo ad attrarre l’attenzione dei potenziali maestri. I certificati contano poco: se sarete abbastanza bravi, nessuno potrà più ignorarvi»

Studiare da autodidatti per coltivare i propri talenti 

Il fatto che tutti dicano che senza titoli non si possa andare avanti è secondo l’autore solo una grossa bugia perché ognuno può crearsi il proprio personale metodo di apprendimento che consente di farsi un’istruzione di prim’ordine senza bisogno di professori, insegnanti o istituti scolastici. Un po’ come ha fatto lui che, studiando da autodidatta su un manuale regalatogli dal padre, è diventato l’esperto di metodi di software testing che tutti apprezzano negli States.

«La vera arte di vivere non è farsi plasmare ma piuttosto scoprire ciò per cui si è naturalmente portati. La mentalità del gregge, che la scuola, come altre istituzioni, nutre, ha come unico risultato che la maggior parte della gente per la maggior parte del tempo non prova affatto a fare del suo meglio.

Sono molti, per esempio, quelli che non studiano mai di loro iniziativa, ma lo fanno unicamente quando sono costretti. E persino quando studiano, scelgono di occuparsi di materie banali e convenzionali. In tal modo, invece di attribuire alla loro professionalità un carattere unico, finiscono per assomigliarsi tutti quanti».

Questo atteggiamento, sostiene Bach, è il frutto della paura di non riuscire, che spesso blocca le nostre capacità di apprendere e manifestare il meglio di noi, anche perché spesso chi non riesce negli studi viene svalutato agli occhi della società: «la sindrome del brutto anatroccolo è assai comune: fin troppi ritengono di doversi abituare alla vita dello stagno, anziché prendere il largo». Risultato? Gente sempre più frustrata e annoiata per quello che si ritrova a fare nella vita, a maggior ragione se, come si legge nel libro, non si ha la percezione che ciò che si fa è di giovamento a qualcuno.

Dare il meglio di sé nell’ambiente giusto: il segreto della felicità per James Marcus Bach

«Forse è proprio questo – constata, infatti, Bach – il segreto della felicità: trovare il gioco cui preferiamo giocare, anziché imparare a vincere in un contesto che detestiamo. Personalmente è stata l’idea di potermi rendere utile agli altri a regalarmi un po’ di autostima e la voglia di trovare da solo nuovi metodi per definire il mio valore».

La passione, la curiosità, insieme a questo nuovo significato che può assumere il sapere, sono per lo scrittore americano motori sufficienti a raggiungere quasi ogni obiettivo. Se, dunque, all’interno della scuola non si coltivano questi fondamentali elementi e ogni nozione viene vista dai ragazzi come qualcosa di imposto e da imparare necessariamente, pena la punizione di voti bassi e bocciature, è ovvio che le cose non andranno mai come dovrebbero. Nella scuola ma anche negli altri contesti del vivere quotidiano, come quello aziendale per esempio. Anche lì, conclude l’autore, «si istituiscono spesso regole, strumenti e procedure complesse che ostacolano la creatività. Ci sono però aziende, di crescente successo, che non provano affatto a meccanizzare o comandare il pensiero. Al contrario, creano un ambiente che sostiene e incoraggia la sperimentazione e la soluzione dei problemi, a tutto beneficio di loro stesse e delle persone che ci lavorano. Se i professori delle scuole le prendessero ad esempio le cose funzionerebbero molto meglio e probabilmente neppure io avrei mai abbandonato prima del tempo il mio percorso di studi».

Vincenzo Petraglia

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