Una piccola vittoria per alcune Regioni e per i movimenti ambientalisti
Si può estrarre petrolio fino all’esaurimento dai pozzi autorizzati che si trovano lungo le coste italiane entro le acque territoriali (12 miglia)? Oppure è giusto che, trent’anni dopo la loro concessione, i permessi nelle mani delle multinazionali scadano? È questo il quesito a cui gli italiani potranno rispondere in primavera dopo la decisione della Corte Costituzionale di ammettere il referendum antitrivelle sulla durata delle licenze. Smentite, per ora, le indiscrezioni secondo cui sarebbe allo studio un provvedimento ad hoc sulla durata delle concessioni di estrazioni già esistenti. La data giusta per il referendum potrebbe essere il 17 aprile.
UN SUCCESSO “TRASVERSALE” – Il quesito del referendum sulle trivelle riguarda la durata delle autorizzazioni a esplorazioni e trivellazioni dei giacimenti già rilasciate. A proporlo sono stati nove Consigli regionali (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise). Questo stesso era già stato dichiarato ammissibile dalla Cassazione. I quesiti referendari proposti erano in tutto sei. In un primo tempo l’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione li aveva accolti tutti. Ma il governo ha introdotto una serie di norme nella legge di Stabilità che hanno messo mano alla materia, ribadendo il divieto di trivellazioni entro le 12 miglia marine.
La Cassazione ha dovuto quindi nuovamente valutare i referendum e ne ha ritenuto ammissibile solo uno: il sesto. Il quesito riguarda la norma che prevede che i permessi e le concessioni già rilasciati abbiano la “durata della vita utile del giacimento”. La Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile solo questo referendum, per l’abrogazione della norma. «A breve gli italiani avranno finalmente la possibilità di far sentire la loro voce ed di far vincere le ragioni della biodiversità – ha dichiarato Annamaria Procacci, responsabile per Enpa dei temi ambientali e climatici -. Il quesito è l’unico testo “sopravvissuto” ai sei originariamente presentati per questo esso ha una valenza simbolica straordinaria».
QUASI TUTTE AL SUD LE AREE INTERESSATE – La Cassazione ha deciso che questa doveva restare materia di referendum e ha aggiunto una mezza riga che completa il quesito, «nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia». La notizia è giunta a poche settimane di distanza dall’autorizzazione, concessa dal Ministero per lo Sviluppo Economico, alle ricerche petrolifere in zone strategiche come le isole Tremiti, Pantelleria, il golfo di Taranto, Ombrina. Tutto fermo adesso, in attesa del voto. In vista del referendum, però, dalle Tremiti giungono diverse perplessità. Il ministero ripete che erano state autorizzate prospezioni e non ricerche, ma anche in questo caso – se dal referendum venisse fuori un “no” – l’impatto sull’ecosistema marino sarebbe rilevante. Un aspetto di non poco conto per una comunità che in cinque mesi all’anno riesce a fare gli utili che le permettono di andare avanti quasi tutto l’anno.
COSA CHIEDONO LE AZIENDE? – Secondo le multinazionali del petrolio, l’Italia non è povera di risorse naturali, ma semplicemente le “sfrutta” male. Dai pozzi italiani nel 2014 sono stati estratti 5,7 milioni di tonnellate di petrolio e 7,3 miliardi di metri cubi di gas naturale. Cifre che rappresentano il 10,3 per cento del fabbisogno di petrolio e l’11,8 del consumo di gas del Paese: importanti sì, ma comunque lontane dal concedere all’Italia lo status di indipendenza energetica dall’estero. Ma gli ambientalisti replicano facendo riferimento al pericolo degli sversamenti in mare e ai rischi di movimenti tellurici legati all’estrazione del gas. Il coordinamento No Triv ipotizza che le attività estrattive in Emilia Romagna possano aver causato il sisma del 2012 e che la tecnica di esplorazione air gun, che consiste nello sparare sul fondale aria compressa, possa alterare l’equilibrio della fauna marina.
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