“Inerzia al potere”: si intitola così il report con cui l’organizzazione attivista A Sud punta il dito contro il governo italiano, reo di non avere agito in modo abbastanza convinto e rapido contro l’emergenza climatica
“Inerzia al potere”. Il titolo del nuovo report dell’organizzazione ecologista A Sud parla da solo. Il dossier vuole dimostrare che, nonostante le promesse, l’Italia sta affrontando l’emergenza climatica in modo troppo lento e poco convinto, restando molto lontana dalle raccomandazioni delle istituzioni europee e della comunità scientifica. Lo fa a suon di dati e casi concreti.
Emergenza climatica, perché l’Italia è in ritardo
L’Italia ha la possibilità di fare molto per arginare l’emergenza climatica. Anzi, è più corretto dire che ne ha la responsabilità. Innanzitutto perché ha le risorse per farlo, essendo la decima economia a livello globale e la terza nell’Unione europea. In secondo luogo, perché è nella classifica delle venti nazioni al mondo che hanno emesso le maggiori quantità di gas serra tra il 1850 e il 2021: ciò significa che ha dato un contributo determinante al riscaldamento globale in corso. Un contributo che continua tuttora. Nel 2021 ogni nostro connazionale ha emesso in media 5,7 tonnellate di CO2, contro una media globale di 4,7.
Il percorso di riduzione delle emissioni è troppo lento
L’Italia si è impegnata a sforbiciare le proprie emissioni per rallentare il corso dell’emergenza climatica. Tuttavia, le politiche del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, anche se venissero rispettate per filo e per segno, avrebbero come risultato un taglio del 36% entro il 2030, se paragonato ai livelli del 1990.
Questo è ancora troppo poco. Perché per contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, come chiede la scienza, l’Italia entro il 2030 dovrebbe tagliare le emissioni molto di più: per la precisione, del 63% rispetto ai livelli del 1990-2010. Volendo anche tenere conto del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, per cui i Paesi che hanno contribuito di più ai cambiamenti climatici devono fare di più per mitigarli, dovrebbe puntare al -92% entro il 2030, sempre rispetto ai livelli del 1990.
L’Italia si è opposta a importanti politiche climatiche europee
Questi numeri possono sembrare un po’ freddi e distanti, ma hanno ripercussioni concrete sulle nostre vite. Perché tagliare le emissioni significa, innanzitutto, smettere di spostarsi a bordo di auto e furgoni alimentati e benzina e diesel. Significa anche obbligare centrali elettriche, raffinerie, inceneritori, grandi industrie e allevamenti intensivi a ridurre le proprie emissioni inquinanti e climalteranti. Significa tagliare gli sprechi di energia degli edifici e alimentarli sempre più con fonti rinnovabili. Significa tutelare la natura che ci circonda o, meglio ancora, aiutarla a riprendersi dai danni che noi stessi abbiamo causato nei decenni. Nel corso del 2023, l’Unione europea – sottolinea il report di A Sud – ha dato il via coraggiose riforme per affrontare tutti e quattro questi temi. L’Italia le ha sempre contestate.
La causa Giudizio Universale contro lo Stato
Questo report fa parte della documentazione che A Sud porterà a supporto di Giudizio Universale, la causa contro lo Stato italiano intentata da una vasta rete di cittadini e organizzazioni attiviste. L’azione legale fa leva sul fatto che l’Italia si sia formalmente impegnata ad agire contro l’emergenza climatica, perché – tra le altre cose – fa parte dell’Unione europea, ha ratificato l’Accordo di Parigi, ha addirittura una Costituzione che (da poco) cita la tutela dell’ambiente. Per questo, le può essere formalmente contestato il suo ritardo nel perseguire politiche efficaci. Giudizio Universale è un’iniziativa simbolica? Tutt’altro: se l’azione legale si concludesse con una condanna, il governo del nostro Paese potrebbe essere obbligato ad abbattere drasticamente le emissioni, seguendo i dettami della scienza.