Il fondatore della più grande rete di spazi di coworking dedicata ai talenti del digitale, racconta la sua visione sul mercato del lavoro fra tecnologia, formazione e scuola
L’ultimo rapporto dell’Ocse non ha lasciato troppe speranze ai giovani italiani, condannati a vivere e a far vivere ai propri figli una vita con minori possibilità rispetto a quelle garantite loro dai genitori. Ma in uno scenario irto di difficoltà, le storie di disagio catturano di più l’attenzione rispetto a quelle di successo. Invece probabilmente conviene dare ascolto a chi, nonostante la fase storica in corso, ha scommesso sull’Italia per il proprio futuro. E ora raccoglie i frutti di una semina intelligente. Davide Dattoli ha spento da poco venticinque candeline ed è il fondatore di «Talent Garden», la più grande rete di spazi di coworking dedicata ai talenti del digitale. Dicono quasi tutto i numeri della sua attività: Talent Garden vanta diciotto campus in sei Paesi europei, 1900 iscritti e settanta dipendenti. Una realtà solida costruita in appena sei anni. Vale dunque la pena chiedere a lui qualche consiglio utile per tirare su il morale dei giovani italiani.
Come legge gli ultimi dati dell’Ocse?
«L’invecchiamento della popolazione è un dato incontrovertibile, così come le maggiori difficoltà che incontrano le generazioni più giovani. Ma quando vengono pubblicati questi dati, non ragioniamo mai in maniera propositiva: chiedendoci come trattenere i ragazzi italiani, ma soprattutto attrarre quelli stranieri. La mobilità è un valore aggiunto, ma in Italia si fatica ad attrarre professionisti dall’estero».
Fosse per lei, cosa farebbe?
«Bisogna saper leggere il mercato e modificare il sistema formativo. Oggi non è più pensabile formare un giovane a un solo lavoro, che farà per tutta la vita. I cicli professionali, d’ora in avanti, non dureranno più di quindici anni, massimo venti. Questo scenario non riguarda soltanto l’Italia. Ma nel nostro Paese si fatica ancora a parlare di riforma della scuola».
E allora?
«Servirebbero corsi universitari più brevi e professionalizzanti, accompagnati da un più precoce ingresso nel mondo del lavoro. Dopodiché, arrivati a 35 anni, potrebbe essere necessario tornare a studiare per evolversi sulla base delle richieste del nuovo mercato del lavoro».
La formazione non finisce mai, dunque?
«Lo studio è il segreto per venire fuori da questi momenti. La tecnologia marcia a velocità spedita e bisogna saper riadattarsi a seconda dei nuovi bisogni della società».
C’è un Paese a cui guardare per essere più ottimisti?
«Queste difficoltà riguardano la società occidentale nella sua interezza. Ma gli Stati Uniti, con Obama, sono stati l’unica nazione a incentivare la diffusione di un modello di formazione breve e professionalizzante attraverso i bootcamp. In Italia, invece, si litiga ancora sull’alternanza tra scuola e lavoro».
Qual è il suo pensiero, a riguardo?
«Da bambino guardavo i film americani e mi chiedevo come mai i genitori andassero a turno nelle classi a parlare del loro lavoro. Crescendo l’ho capito, oltre che apprezzato. È un modo per prendere per mano i più piccoli e avvicinarli progressivamente alla scoperta della professioni, ma che da noi non ha mai preso piede per paura che il business entrasse in ambito formativo. Così siamo finiti ad avere diciottenni che terminano la scuola senza avere le idee chiare in merito alla scelta degli studi universitari da compiere. E università che sfornano laureati in giurisprudenza e non ingegneri informatici, in grado di trovare lavoro in poche settimane».
Ben venga l’alternanza, dunque?
«Sì, anche se il modello è sicuramente rivedibile. Ma guai a tornare indietro. Il passo andava fatto: bene così. Adesso, costruendo un dialogo anche coi ragazzi, cerchiamo di capire come possa essere corretto».
Perché pochi mesi fa prese posizione contro Brunello Cucinelli?
«Vogliamo entrambi la felicità dei dipendenti, ma pensiamo di raggiungerla percorrendo strade diverse. Lui sostiene che non debbano essere mandate email dopo le 17,30. Io ritengo che oggi non abbia più senso porre dei paletti rigidi sull’orario e sul luogo di lavoro. Chi preferisce dormire più a lungo, per me può iniziare a lavorare dopo. Sono gli obiettivi a fare la differenza, nel 2017».
Potere della tecnologia: ma come la mettiamo coi lavori che si perderanno?
«Sappiamo quali perderemo, con ogni probabilità. Ma limitandoci a questo guarderemmo il dito e non la luna, senza chiederci quali invece si creeranno. La tecnologia non è un settore a sé, ma uno strumento base che oggi è imprescindibile in qualunque settore. D’altra parte è un controsenso vivere con lo smartphone sempre in mano e il terrore che lo stesso ci tolga il lavoro. Cambiamo prospettiva, per individuare nuove opportunità».
Twitter @fabioditodaro