Avere a disposizione di volta in volta dei talenti di cui si ha bisogno e, d’altro canto, essere pronti a spostarsi di società in società per realizzare progetti innovativi. Il potenziale del lavoro liquido è immenso, ma in Italia non è ancora stato inventato.
Precario, incerto, flessibile, transitorio, in trasformazione. O, più precisamente, liquido. Se ci riferiamo al mondo del lavoro oggi non possiamo non rifarci al pensiero del sociologo che, come nessun altro probabilmente, ha saputo catturare in un’immagine un processo complesso nel momento stesso della sua piena evoluzione: con Zygmunt Bauman, infatti, ci scopriamo immersi anche noi nella liquefazione della modernità e il lavoro liquido, dunque, non è che una componente delle tante forme del vivere che risentono di questa profonda instabilità degli eventi che rientrano nel grande fenomeno della globalizzazione.
La modernità liquida di Zygmunt Bauman
Com’è possibile descrivere le fattezze della nostra società attingendo a uno stato fisico della materia? Bauman trova una serie di proprietà quanto mai pertinenti: là dove i confini sembrano perdersi, siamo sollecitati da più agenti esterni a cambiare forma, malleabili a un’inedita ricerca della felicità in rapporti sociali disimpegnati, destrutturati.
In un saggio intitolato “Zygmunt Bauman: modernità liquida e oltre”, si utilizza un’immagine molto eloquente: è come se fossero stati rilasciati i “freni” a una vasta gamma di libertà personali le quali hanno determinato uno sblocco delle scelte individuali da quelle collettive. Ed ecco che l’individualizzazione, la deregolamentazione e la capacità di adattamento guidano le forme di prestazione di un servizio, ad esempio. Secondo lo stesso Bauman, siamo più pronti al cambiamento e ad abbandonare vecchi modi di fare le cose che non funzionano più, seppur nuovi modi non siano ancora stati inventati. Questa è la grande sfida della postmodernità e su cui è sempre più necessario fare una riflessione sulle forme di regolamentazione del lavoro cosiddetto liquido, che al momento sembra associarsi più a una riduzione delle tutele che non a una via di autorealizzazione professionale.
Il contesto attuale giustifica il lavoro liquido?
In un’intervista per Rai Cultura, il sociologo polacco si è concentrato sulla paura come emozione che ha la sua parte di “responsabilità” se vogliamo individuare le trasformazioni nel sistema economico globale che hanno in qualche modo acconsentito a una diffusione del lavoro liquido: “Le paure sono compagne permanenti della vita umana – sono le parole di Bauman -. Ma oggi osserviamo che non c’è più una specificità e un tempo a cui si riferiscono. In precedenza, queste paure erano più facili da individuare: si sapeva dove vivessero gli animali feroci e come tenere lontani i bambini dai predatori a ridosso delle nostre case. Si sapeva di cosa aver paura e come proteggere i propri cari”.
Bauman si concentra sulle paure legate alla posizione lavorativa individuale, al futuro professionale del singolo. “Oggi è più difficile individuare queste paure e da dove arriverà il pericolo: può venire dall’azienda più grande della tua che fa un’acquisizione e improvvisamente sei in esubero – prosegue l’intervista -. Un’altra tegola può arrivare da una fonte misteriosa come l’andamento delle borse, il commercio mondiale, la disoccupazione massiccia e non hai più quel credito che ti permette di sentirti al sicuro. Questo crea incertezza e significa che io, come individuo, ignoro quello che succederà, mi sento impotente e capisco che non sarei in grado di prevenire questi pericoli perché esercitati da forze troppo potenti. Questa situazione porta un danno alla mia autostima e io non mi sento adeguato a questo mio compito. Nella società in cui viviamo c’è sempre, latente, una sensazione nascosta di una possibile catastrofe e poiché siamo disperatamente alla ricerca di una causa, quando non sappiamo da dove viene un pericolo, non sappiamo come combatterlo”.
Le trasformazioni tecnologiche possono rappresentare un emblematico esempio in questo senso, perché i ceti sociali che non sono in grado di misurarsi con questo paradigmatico cambiamento, sono quelli presi dalle maggiori paure e soggetti al fascino dei populismi che propongono un passato in cui la società viveva sotto un diverso (anacronistico) ordine.
Il lavoro liquido , questione di competenze
Essere imprenditori di se stessi suona molto più affascinante della conquista del posto fisso, un obiettivo sempre meno seducente agli occhi delle giovani generazioni.
Lo “spaziotempo professionale” è completamente de-strutturato e oggi parlare di orari e ambienti di lavoro è pressoché associato a settori poco o per nulla innovativi.
Lavorare per obiettivi invece che per monte ore, considerarsi nomadi digitali invece che costretti al buono pasto, sfruttare le tecnologie invece che temere la novità.
Secondo le società che si occupano di welfare aziendale e benessere del personale, sono 5 le caratteristiche associabili al posto di lavoro liquido:
- Cambiamento che l’organizzazione può richiedere ai suoi membri in base agli obiettivi
- Flessibilità nel cambiare ruolo anche in base a input esterni
- Mancanza di permanenza stabile e commisurata ai progetti di cui si è parte
- Mobilità di ruolo e team in base ai cicli degli obiettivi
- Orizzontalità delle relazioni in base agli obiettivi
Questa prospettiva richiede uno sforzo da parte di chi si occupa di fare orientamento e formazione al lavoro, così come le stesse aziende prediligono profili che sempre più sanno valorizzare queste competenze trasversali, piuttosto che specifiche verso una mansione.
Cosa ricercano le aziende?
A tal proposito una interessante riflessione è stata posta su Metis, rivista scientifica di pedagogia e didattica. Le aziende che hanno ben chiaro questa necessità, hanno rivisto le proprie priorità in fase di selezione: “Dal saper fare con professionalità, collegato ad un determinato posto di lavoro, a prendere in considerazione in tutta la sua complessità il saper agire con professionalità, dove la competenza assume una capacità generativa di performance sempre nuove”.
E ancora, troverà collocamento “il soggetto che sappia utilizzare tutte quelle doti personali che gli offrano la possibilità di gestire l’incertezza, affrontando alacremente i vari cambiamenti che, di volta in volta, si presentano lungo il suo percorso. Il sapersi adattare, il riuscire ad anticipare, l’essere innovativi, il non aver paura di rischiare diventano degli indispensabili attrezzi culturali”.
Su cosa concentrarci, dunque, al prossimo colloquio? Di valorizzare le nostre doti umane, la nostra creatività e la capacità di problem solving così come la propensione al collaborare in team e ad assumere responsabilità organizzative. Questo non ci garantirà l’assunzione a tempo indeterminato, forse, ma almeno di salire a bordo di una nuova avventura lavorativa.
Il diritto alla disconnessione
L’uno richiama l’altro. Il diritto alla disconnessione rispecchia una nuova istanza legata inevitabilmente alla natura mutevole del mondo del lavoro, in particolar modo agevolata dall’avvento della pandemia da Covid 19. Nella emergente necessità di trovare nuovi equilibri tra vita personale e sfera professionale il diritto alla disconnessione riconosce al lavoratore “il diritto di sospendere l’attività lavorativa e di astenersi dall’utilizzare comunicazioni elettroniche legate al lavoro come mail o altri messaggi in orario non lavorativo” (fonte: Parlamento europeo).
A che punto siamo? Le grandi aziende hanno provveduto internamente a promuovere comportamenti che privilegino le comunicazioni dirette piuttosto che gli scambi indiretti, quelli che portano, appunto, a sforare sugli orari di lavoro. Molto c’è ancora da fare affinché il diritto alla disconnessione sia regolamentato in maniera univoca nei Paesi dell’Unione, allo scopo di proteggere il benessere psicologico e fisico dei dipendenti e inserendo il lavoro agile, nelle sue diverse forme, in un quadro normativo chiaro. Affinché le derive del lavoro liquido non facciano acqua da tutte le parti.
Rosy Matrangolo