Wise Society : La maggior parte delle startup è destinata a fallire? Vi spiego come crearne una di successo
Wise Incontri

La maggior parte delle startup è destinata a fallire? Vi spiego come crearne una di successo

di Vincenzo Petraglia
30 Ottobre 2020

La pandemia ha trasformato le nostre vite e si avverte un profondo desiderio di cambiamento. Ma perché è così difficile oggi innovare e perché tante nuove imprese, pur partendo da idee in apparenza geniali, non riescono a superare la prova del mercato? È possibile invertire questa tendenza e come? Ne parliamo con Enrico Deluchi, general manager di PoliHub, fra i più prestigiosi incubatori e acceleratori d'impresa al mondo

Perché la gran parte delle startup oggi è destinata a fallire, pur partendo magari da idee a prima vista geniali? Quanto è difficile oggi innovare in una società dove sembra essere stato (erroneamente, come ha ampiamente dimostrato la pandemia generata dal Coronavirus) inventato ormai tutto? E perché in Italia si fa così tanta fatica a creare terreno fertile per una reale innovazione e un cambiamento di lungo termine? E soprattutto, come è possibile creare business vincenti in grado di superare la prova del mercato e migliorare magari anche la società e la vita delle persone?

Ne abbiamo parlato con Enrico Deluchi, nuovo general manager di PoliHub, incubatore e acceleratore d’impresa del Politecnico di Milano, in assoluto una delle eccellenze del nostro Paese in questo settore, inserita nella top 5 dei migliori incubatori universitari al mondo da Ubi Global, associazione indipendente svedese che, dal 2013, misura le performance proprio degli incubatori sparsi in tutti gli angoli del pianeta.

Enrico Deluchi

Enrico Deluchi è da poco diventato general manager di PoliHub, incubatore e acceleratore d’impresa del Politecnico di Milano, dopo aver ricoperto ruoli di prestigio in diverse multinazionali.

La fase storica che stiamo vivendo ha trasformato profondamente le nostre vite e forse, come mai negli ultimi decenni, si avverte un forte bisogno di cambiamento. Cosa significa al giorno d’oggi innovare e quali caratteristiche deve avere un’organizzazione per essere realmente innovativa e generare vero cambiamento?

Significa modificare lo status quo per fare delle cose nuove, produrre un cambiamento non fine a se stesso, ma che auspicabilmente possa migliorare la società, la vita delle persone. Anche la bomba atomica fu frutto di un’innovazione, l’energia atomica, che però in quel caso venne utilizzata per fini nefasti. Uno degli elementi fondamentali dell’innovazione è accettare il rischio, non avere paura di cambiare. Proprio la classica paura di lasciare la strada vecchia inchioda organizzazioni e persone. Accettare il rischio significa saperlo pesare, essere coscienti che ci può essere anche qualcosa che può andare storto. Ecco perché per un’azienda è fondamentale, per esempio, ascoltare e comprendere il mercato, quindi i bisogni che esso esprime. Altrimenti è creatività a ruota libera, non innovazione vera. Altro elemento fondamentale è la visione: innovo perché voglio andare da qualche parte, nel lungo termine. L’innovazione tattica, per l’immediato, non è un qualcosa che produce grande cambiamento. Infine, innovare è anche capacità di collaborare: se si vuol fare innovazione, pensare di saper fare tutto da soli è pura follia; bisogna avere ben chiari i propri punti di forza e di debolezza e trovare chi possa aiutarci a produrre cambiamento.

L’Italia è in grado di innovare? O c’è un doppio binario, quello privato e quello pubblico-istituzionale, che non riesce a collimare in un unico punto?

Il più grande problema del nostro Paese è che non ha una visione del futuro, non ha chiaro cosa vuole essere e ragiona solo sul presente, crogiolandosi nel passato, peraltro un passato vecchio di secoli, se non millenni, se pensiamo all’impero romano. Ma qual è il futuro dell’Italia, che ruolo vuole avere nel mondo, per cosa vuole essere conosciuta e apprezzata? Abbiamo questa visione come Governo? Non mi pare. Ci sono paesi che sanno fare progetti a cinquant’anni, proprio perché hanno la capacità di seguire una propria visione. Pensiamo alla Cina, alla Germania, ai Paesi scandinavi e a quelli baltici, come per esempio la piccola Estonia, il paese più digitale del pianeta. Per una politica priva di ideali la scuola, la ricerca, l’università rappresentano l’ultimo dei pensieri e così accade che, invece di investire sulle generazioni future, investiamo sui vecchi, perché sono quelli che votano oggi, lasciando ai nostri figli il conto di quanto non viene fatto oggi. 

Questo influisce anche sul ricambio generazionale in un Paese dove le teste grigie rimangono al comando delle cabine di regia strategiche e le barriere all’ingresso per i giovani nei posti che contano di aziende, istituzioni ed università permangono in maniera importante…

Abbiamo una tradizione umanistica pazzesca e sembra quasi che essa sia in competizione con la competenza tecnologica. C’è in alcuni casi molta resistenza a creare sinergie fra queste due sfere del sapere perché non si è capito che la nostra cultura umanistica è la cosa che oggi serve di più, da porre accanto alla tecnologia, che altrimenti potrebbe andare fuori controllo. La tecnologia è, infatti, oggi così potente e veloce, che ha bisogno più che mai di essere indirizzata nel giusto modo. E cosa può riuscire meglio in tal senso se non la filosofia, la storia, l’etica? Il ricambio generazionale è figlio anche di questo percorso e non è un caso che in Italia abbiamo pochissime startup. Da lì parte l’innovazione: pensiamo a Zuckerberg; lui ed altri come lui oggi vengono visti come grandi manager, ma sono partiti proprio da una startup prima di arrivare a essere quello che sono. Da noi purtroppo c’è poca dinamicità.

Perchè?

C’è innanzitutto un problema strutturale che deriva dalla difficoltà a trovare capitale, investitori. E lo dimostra il fatto che per gli investimenti in venture capital in Europa l’Italia è in fondo alle classifiche. Città come Milano, che pure rappresenta il top in Italia, sono una frazione infinitesimale di Londra ed altre città. Copenanghen, per esempio, è quattro o cinque volte il capoluogo lombardo. Abbiamo un problema di atteggiamento rispetto al capitale di rischio, d’altra parte siamo quelli che hanno più risparmi nel cassetto rispetto ad altri paesi. Poi abbiamo avuto una cultura malsana delle startup: abbiamo insegnato ai ragazzi, tramite una narrazione distorta, il modello Zuckerberg, che cioè si diventa miliardari, ma in realtà gli unicorni nel mondo sono pochissimi, la startup è duro lavoro, sudore, fatica, spesso guadagni molto limitati.

Forse, sempre a livello culturale, bisognerebbe fare un salto di qualità anche per quanto riguarda il significato che si dà al fallimento. In realtà più evolute e dinamiche, come per esempio Silicon Valley o Cina, il fallimento viene visto come un’occasione per imparare dai propri errori e migliorarsi, in Italia invece come un qualcosa da stigmatizzare…

Il fallimento da noi è uno stigma a livello culturale ma anche sotto il punto di vista normativo. Se l’azienda fallisce le banche non ti fanno più credito, quindi tutti hanno paura di fallire, perché un fallimento ti marchia e inficia non poco ogni tua possibilità futura di creare una nuova impresa. Invece bisognerebbe chiedersi: perché hai fallito, in cosa si può migliorare?

Lei è esperto di innovazione digitale, un fronte su cui l’Italia deve crescere moltissimo, e il lockdown forse l’ha dimostrato una volta di più. Di cosa, secondo lei, questo Paese ha oggi più bisogno e cosa questa pandemia ci sta facendo scoprire di nuovo?

Intanto ci stiamo rendendo conto forse di una prima cosa molto importante, che cioè il lavoro non si misura in ore, ma in output, nel senso che in troppi settori, che potrebbero essere organizzati diversamente, la produttività di un lavoratore è legata al numero di ore che questa persona trascorrere in ufficio. Adesso che si è costretti a fare smart working tante aziende si stanno rendendo conto che molta gente lavora anche di più da casa. Così molte realtà aziendali stanno pensando di non far rientrare più in ufficio i propri dipendenti, puntando sul telelavoro. Questo ovviamente ha conseguenze sul mercato immobiliare, per esempio con la necessità di avere uffici più piccoli, sugli spostamenti e la mobilità cittadina, non essendo più costretti a sprecare una parte della giornata per andare e tornare dal luogo di lavoro, sulla ristorazione. Sempre più si andrà verso le “15-minutes cities”, quelle cioè in grado di rendere raggiungibili con una passeggiata a piedi o in bici di non più di un quarto d’ora dalla propria abitazione la maggior parte dei luoghi abitualmente frequentati: lavoro, negozi, parchi, servizi pubblici, con un impatto importante quindi sull’organizzazione delle città, sull’utilizzo dei mezzi di trasporto e sulla gestione del proprio tempo.

Questo si lega al tema della sostenibilità. Innovazione e sostenibilità in che rapporto stanno e come dialogheranno nel futuro prossimo?

I soldi veri vanno verso l’innovazione legata alla sostenibilità. I grandi investimenti strategici long term vanno tutti nella direzione delle energie rinnovabili per esempio, non di quelle fossili. Tutti i grandi progetti hanno una forte aderenza con i 17 sustainable goals e anche in PoliHub abbiamo progetti che hanno sempre un contenuto etico con l’obiettivo di migliorare la società e la vita delle persone. Il futuro è segnato.

Polihub

Il mondo PoliHub, eccellenza italiana nel campo dell’innovazione, “casa” di molte startup che a Milano vengono aiutate a trasformare le loro idee in business vincenti.

Come nuovo general manager di PoliHub, che indirizzo vuole imprimere alla sua gestione?

Puntare innanzitutto su una forte caratterizzazione tecnologica, diventando il punto di riferimento italiano per chi vuole fare innovazione tecnologica. Abbiamo una forza di brevetti e una storia importante su cui possiamo costruire un movimento di pensiero legato alla tecnologia per migliorare la società. Partendo da questo ci proponiamo di allargare il più possibile la community e le relazioni fra le realtà che sono interessate a questi temi e diventare sempre più bravi nelle competenze, in modo da attrarre le migliori imprese, i migliori mentor e le migliori menti per diventare il luogo dove tutti quelli che si vogliono occupare di Big tech ambiscono ad andare.

Perché il PoliHub è riuscito a diventare una delle fucine dell’innovazione più importanti del nostro Paese e tra le migliori al mondo?

Perché possiamo contare su un’università, il Politecnico di Milano, attorno a cui gravitano cinquantamila persone che lavorano nella scienza, nel design e nell’architettura. Un patrimonio terreno fertilissimo per l’innovazione, in un contesto, quello milanese, fulcro dell’industria, dei servizi e della finanza del Paese, tutte condizioni ideali per creare incubatori dinamici e di successo.

Nello specifico qual è il vostro lavoro? Ci racconti brevemente come seguite le startup dall’idea fino alla prova del mercato…

Facciamo un po’ quello che fa per un neonato l’incubatrice: prende un bambino molto piccolo e lo fa crescere. Nel nostro caso, prendiamo piccoli team di persone con l’idea di fare impresa e li mettiamo nelle condizioni ideali per sviluppare il loro progetto e farlo diventare sufficientemente maturo, così da creare una vera impresa in grado di camminare con le proprie gambe. Diamo a questi team una casa in cui sviluppare le loro idee, il proprio business plan, poi li sosteniamo nella ricerca degli investitori e nell’individuazione dei fondi giusti per il loro progetto, finché l’impresa non è pronta per il mercato insomma. Si tratta della terza missione dell’ateneo, che si impegna, oltre che nella didattica e nella ricerca, anche nel creare un impatto per il territorio di riferimento, sociale, culturale ed economico.

Al momento quante startup seguite in PoliHub?

Una ottantina, e poi una trentina di aziende già consolidate che hanno preso degli uffici da noi per stare più vicine all’innovazione all’interno del nostro campus di circa ottomila metri quadri.

Sappiamo dai dati che il tasso di mortalità delle startup oggi è molto alto, per cui la maggior parte di esse, dopo aver visto la luce magari anche grazie a idee molto belle e promettenti, non riesce a superare la prova del mercato. Che consigli si sente di dare a chi vuole lanciare una startup di successo?

La cosa fondamentale è validare la propria idea, il proprio progetto. Essere sicuri che l’idea, quindi la soluzione che si ha in mente risponda effettivamente a un’esigenza del mercato, a un problema, un bisogno, un desiderio esistente. Secondo step: capire quale sarà la risposta del mercato all’innovazione che si intende lanciare. Il che vuol dire: qualcuno sarà disposto a pagare per la soluzione che io propongo? Facciamo un esempio: se invento un prodotto veramente efficace contro la calvizie, le persone calve saranno poi disposte a comprarlo o magari no perché costa troppo? Se la mia soluzione risolve un problema ci deve essere anche qualcuno disposto a pagare per quello che propongo! Bisogna capire che fare startup non è creatività, ma è un atto di disciplina. Ecco perché tutti questi passaggi di validazione vanno necessariamente fatti, altrimenti il rischio di insuccesso è molto molto alto. Così facendo, anche la possibilità di trovare investitori che credano nel progetto cresce notevolmente. Questo aspetto chiama in causa, insieme alla capacità di creare un prodotto o un servizio super e di ascoltare il mercato, anche un altro elemento molto importante per gli startupper: saper raccontare la propria idea, e come PoliHub aiutiamo i nostri team anche nel migliorare la loro capacità di fare storytelling.

Cosa dobbiamo attenderci dal futuro? Quali saranno gli ambiti attorno ai quali si concentrerà la maggior parte delle nuove idee d’impresa?

I macro investimenti si stanno orientando per la massima parte in settori strategici quali la sostenibilità, quindi energie rinnovabili, stoccaggio dell’energia, pianificazione e razionalizzazione delle attività di sostentamento, come per esempio l’agricoltura, in ottica cambiamento climatico e risparmio di acqua ed energia, gestione dei rifiuti, soluzioni per ridurre gli sprechi secondo un approccio di economia circolare, ricerca di nuovi materiali, non inquinanti. Ancora, il settore delle scienze della vita, quindi biotech, vaccini, sistemi di diagnosi, cura e prevenzione, a maggior ragione in un periodo di pandemia quale quello che stiamo vivendo. E poi automazione industriale, quindi trasformazione produttiva, comunicazione e sicurezza – pensiamo soltanto a tutto il discorso della cybersecurity visto il sempre maggiore utilizzo futuro di smart working – e robotica, intelligenza artificiale, elaborazione dei dati. Il futuro verrà scritto in questi settori quanto mai strategici per l’umanità.

Vincenzo Petraglia

© Riproduzione riservata
Altri contenuti su questi temi: ,
Continua a leggere questo articolo:
CONOSCI IL PERSONAGGIO

Enrico Deluchi

General manager PoliHub - Politecnico di Milano