Wise Society : Dal Carnismo alla Powerarchy: intervista a Melanie Joy
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Dal Carnismo alla Powerarchy: intervista a Melanie Joy

di Serena Fogli
21 Maggio 2020

Cos'è il Carnismo? E la Powerarchy? Melanie Joy ci parla della psicologia dell'oppressione, spiegandoci perché scegliendo empatia e compassione riusciremmo a dar vita a un mondo migliore.

Il mondo aspetta un cambiamento che ci permetta di virare verso l’empatia e la compassione: abbiamo bisogno di far nostri strumenti che ci consentano di aver cura gli uni degli altri, e di tutte le forme di vita che abitano la Terra. Leggere i libri di Melanie Joy può aiutarci a trovare la giusta strada.

Psicologa sociale, consulente di rapporti personali e interpersonali, Melanie Joy è conosciuta anche per essere una fervente attivista dei diritti degli animali: ha coniato il termine carnismo, concetto con il quale ha indagato la modalità con cui ci rapportiamo a ciò che la maggior parte di noi considera cibo.

Abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con lei e le sue parole si sono rivelate particolarmente adatte al periodo storico che stiamo vivendo: la pandemia può infatti essere un’ottima occasione per ricominciare e dare inizio a un nuovo corso della storia.

Melanie Joy

Melanie Joy

In Italia lei è conosciuta soprattutto tra i vegani per la sua teoria sul carnismo. Può spiegarci brevemente di cosa si tratta?

Il carnismo è un sistema invisibile di credenze, un’ideologia che ci condiziona a mangiare solo alcune specie di animali rispetto ad altre: è praticamente l’opposto del veganesimo. Solitamente pensiamo che solo vegetariani e vegani seguano un particolare schema mentale quando si tratta di mangiare animali ma, in realtà, anche scegliere di mangiare un maiale e non un cane significa appellarsi a uno schema mentale. L’unica differenza è che il carnismo è sempre stato invisibile e non abbiamo mai avuto sospetto della sua esistenza, se non in tempi molto recenti.

Oggi il carnismo è l’ideologia dominante: è un’ideologia fortemente intessuta nella nostra società e per questo è come se fosse stata istituzionalizzata; modella norme, leggi, credenze e comportamenti. Per esempio, oggi studiare scienze della nutrizione e dell’alimentazione significa, in realtà, studiare l’alimentazione carnistica, senza tuttavia avere la possibilità di riconoscerne lo schema. Quando nasciamo all’interno di un sistema di pensiero dominante, lo interiorizziamo: è un fatto puramente logico. Impariamo fin dalla nascita a guardare il mondo attraverso le lenti del carnismo.

Libro Melanie JoyCome agisce il carnismo, quindi?

Il carnismo è in tutto e per tutto un sistema di oppressione, tant’è vero che è strutturato come molti altri tipi di oppressione che caratterizzano la nostra società, come ad esempio il sessismo, il classismo, il razzismo e lo specismo. Il pattern mentale è il medesimo: il carnismo deve convincere le persone – che provano naturalmente il senso dell’etica e della compassione – ad agire contro il proprio sistema morale. In questo caso parliamo di animali, per i quali la maggior parte di noi prova empatia e compassione.

Per far ciò il carnismo utilizza sistemi di difesa psicologici atti a distorcere la nostra percezione, fino a disconnetterci dalla nostra naturale empatia per gli animali. Tutti noi siamo vittime del carnismo, senza però averne la consapevolezza. Un meccanismo di difesa tipico del carnismo è l’astrazione: impariamo a pensare agli animali allevati come privi di individualità e personalità: un maiale è un maiale e quindi tutti i maiali sono uguali. L’astrazione crea una forte distanza tra noi e gli animali allevati e, di conseguenza, sopportiamo più facilmente la violenza che il carnismo porta con sé.

Per capire come agisce il carnismo può essere utile un esempio concreto: immaginiamo di andare a cena da alcuni amici e la padrona di casa, mentre mangiamo l’hamburger che ci ha servito, ci dice che stato fatto con carne di Golden Retriever. Siamo stati condizionati a pensare che il Golden Retriever non sia cibo e, a vedercelo nel piatto, proveremmo disgusto. Il carnismo, insomma, ci ha insegnato a classificare gli animali come “commestibili” e “non commestibili.

Un altro importante meccanismo utilizzato dal carnismo è la giustificazione, ovvero il processo attraverso il quale giustifichiamo il fatto di mangiare gli animali. Sto parlando delle cosiddette tre N: mangiare gli animali è Naturale, Normale e Necessario. Si tratta, tuttavia, di miti e credenze che impariamo a definire come veri e propri dati di fatto. I miti e le credenze, nel corso della storia, hanno giustificato molte altre ideologie violente, come la supremazia maschile e sessuale.

Questo ci porta all’idea di cambiamento, perché la consapevolezza del carnismo è a tutti gli effetti un vero e proprio cambio di paradigma. Eppure, cambiare richiede molta fatica. Perché?

Cambiare non è così difficile come molti pensano. Se smettessimo di pensare in bianco e nero, penseremmo al carnismo e al veganesimo come a uno spettro e, in quest’ottica, la direzione che si intraprende è più importante della posizione in cui ci si trova.

Si possono quindi incoraggiare le persone a essere il più vegane possibile. Se ognuno di noi si desse la possibilità di intraprendere una transizione lenta, sarebbe sicuramente più facile: i cambiamenti non avvengono con uno schiocco di dita, tant’è vero che eliminare qualsiasi tipo di abitudine richiede tempo e sforzo.

Bisogna infatti re-imparare a fare le cose in modo differente e, in questo caso, a mangiare e a cucinare diversamente. Tuttavia, col carnismo in particolare, c’è uno scoglio in più da superare: questa ideologia, infatti, si autoalimenta da sola, condizionandoci a resistere al potere delle informazioni che ci aiuterebbero a cambiare e a uscire da un sistema a cui non sappiamo neanche di essere soggiogati. Non a caso, chi mangia carne sta sempre sulla difensiva rispetto al mondo vegano e alle informazioni riguardanti il veganesimo: questi stereotipi negativi permettono al carnismo di perdurare nell’essere il sistema di pensiero dominante.

Ci può fare un esempio?

Per esempio impariamo a credere che i vegani siano oltremodo sensibili, amanti degli animali ed emotivi. E quando una persona è particolarmente emotiva, per definizione significa che non è razionale: le persone irrazionali “non meritano” di essere prese sul serio. Lo stesso stereotipo è stato utilizzato per mettere a tacere le femministe che, come le suffragette, lottavano per vedersi riconosciuto il diritto di voto.

In realtà se pensiamo alla quantità di animali che viene macellata ogni settimana (maggiore dei morti di tutte le guerre della storia dell’uomo) l’emotività e il dolore sono reazioni più che legittime e, anzi, rappresentano una risposta del tutto appropriata alla situazione. Come psicologa non sono preoccupata delle emozioni provate dai vegani, ma dall’apatia che contraddistingue la nostra cultura dominante.

allevamento intensivo dei maiali

Foto: cristinistor ©123RF.com

Il Coronavirus ha portato a galla il problema dei wet market: in Italia molte persone si sono trovate ad esserne disgustate. In realtà non c’è grande differenza con gli allevamenti intensivi: lei pensa che se le persone potessero vedere cosa succede al loro interno la reazione sarebbe la stessa?

Assolutamente sì. Lo vediamo di continuo: le persone cercano di non vedere cosa succede agli animali nel mondo occidentale, perché è troppo doloroso esserne testimoni. E non a caso gli allevamenti intensivi sono ben nascosti agli occhi del “pubblico”. Eppure, per la stragrande maggioranza delle persone, quello che succede nei CAFO sarebbe completamente inaccettabile, se fossero davvero consapevoli di cosa accade al loro interno.


Il dibattito sugli allevamenti intensivi è acceso, anche in Italia. Eppure, come accade per i vaccini e il cambiamento climatico, la discussione si nutre e si alimenta di opinioni personali e non di fatti, tanto da arrivare allo scontro verbale. Perché oggi chi cerca di argomentare attraverso l’esposizione dei fatti viene attaccato?

In realtà non so se ci sia una differenza rispetto al passato ma, probabilmente, questo comportamento è più evidente nella nostra epoca. Molte persone, semplicemente, non hanno imparato a pensare attraverso una modalità che possa aiutarli a comprendere la differenza tra fatti e opinioni. L’informazione digitale, in particolare, incoraggia le persone a non pensare criticamente e a credere a informazioni false e non verificate. Per esempio, nell’ambito del carnismo e della Powerarchy, impariamo a rinforzare costantemente le nostre credenze attraverso il cosiddetto pregiudizio di conferma: tendiamo a ricordare e a notare solo le informazioni che confermano quello in cui crediamo già.

Per questo motivo è sempre importante fare un passo indietro, così da chiedersi costantemente: “qual è l’informazione che riporta davvero i fatti? E come si colloca questa informazione rispetto a quello che io ritengo essere vero?”. Se non impariamo a essere critici e a fare autoriflessione, continueremo a cercare informazioni che confermano quello in cui crediamo già o ciò in cui vogliamo credere.


Lei ha scritto molto sulle relazioni umane, affermando che il nostro modo di comunicare è disfunzionale. Pensa che lo sia anche il nostro modo di rapportarci all’ambiente?

Assolutamente sì, anche se non direi che il nostro modo di relazionarci sia completamente disfunzionale: lo sono però molti dei modi in cui ci relazioniamo.

Il mio ultimo lavoro indaga proprio il cosiddetto alfabetismo relazionale, o meglio la costruzione della nostra capacità relazionale e la comprensione e l’abilità di dar vita a modi sani con cui relazionarsi col prossimo. E, a mio parere, si tratta della cosa più importante che ciascuno di noi può imparare sia per la sua vita, che per poter costruire un mondo migliore in cui tutti possano vivere pacificamente, umani e non umani.

In effetti, quando pensiamo ai problemi del mondo in cui viviamo (guerra, povertà, cambiamento climatico, razzismo, sessismo, sfruttamento animale ecc) e li paragoniamo ai problemi che ciascuno di noi affronta nella sua vita (separazioni, problemi famigliari, sul luogo di lavoro ecc), scopriamo che possiedono tutti la stessa matrice: una disfunzione relazionale. Purtroppo alcuni di noi non arrivano mai a imparare il modo in cui avere relazioni sane, ed è un peccato: ci insegnano a risolvere difficilissimi problemi matematici ma nessuno ci fornisce gli strumenti per imparare a relazionarci col prossimo o a comunicare in modo efficace. La buona notizia è che, una volta imparato l’abc delle relazioni, abbiamo tra le mani i mezzi con cui saremo in grado non solo di trasformare la nostra vita, ma anche il mondo in cui viviamo. Perché relazionarsi e comunicare in modo corretto è qualcosa che funziona quando ci rivolgiamo a un bambino, al nostro partner, a un collega, al cassiere al supermercato, al nostro animale domestico e anche all’ambiente in cui viviamo.

Powerarchy, libro di Melanie JoyPoco fa ha nominato la Powerarchy, che nei suoi libri definisce come la psicologia dell’oppressione che porta a generare una divisione sbilanciata del potere. In che modo lottare contro la Powerarchy porta beneficio alla nostra società, ambiente compreso?

Fammi prima spiegare cos’è la Powerarchy, in modo che tu possa averne una definizione. La Powerarchy è il sistema di credenze basato sulla gerarchia del valore morale.

In questo contesto, quindi, accade che alcune persone (o gruppi di persone) siano più valevoli di essere trattate con più dignità rispetto ad altre. Se, ad esempio, pensiamo alle diverse forme di oppressione (come razzismo, sessismo, classismo o specismo) possiamo immaginarle come raggi di una ruota, di cui la Powerarchy rappresenta il centro. Si tratta, insomma, del metasistema dell’oppressione. Non a caso tutte queste oppressioni possiedono la stessa struttura di base e, molto più importante, riflettono lo stesso tipo di mentalità, ovvero la gerarchia del valore morale.

E’ quindi fondamentale poter riconoscere la presenza della Powerarchy: non è abbastanza cercare di cambiare una singola forma di oppressione ma, al contrario, dovremmo sconfiggere la mentalità che di fatto nutre tutte le forme di oppressione esistenti. In caso contrario, continueremmo a barattare un’oppressione con un’altra. In questo contesto, inoltre, accade anche che le persone che militano nei movimenti di giustizia sociale e civica, e che di fatto lavorano per trasformare l’oppressione, finiscono con l’usare le stesse tattiche e la stessa mentalità che cercano di sconfiggere, diventando loro stessi il problema che cercano di debellare.

La nostra società, soprattutto in Italia, si nutre del conflitto (politico, sociale, ambientale ecc). Lei ha spesso detto che il conflitto può diventare il motore del cambiamento. Come?

La nostra società non è totalmente conflittuale ma, senza dubbio, al suo interno ha dei conflitti. In questo senso, tuttavia, è doveroso specificare che oltre al conflitto esistono anche la connessione e la collaborazione: sono infatti molte le persone che lavorano attivamente per creare una società compassionevole.

E, proprio parlando di conflitto, spesso pensiamo che quest’ultimo sia il risultato delle differenze tra le persone ma, in realtà, le differenze sono raramente un problema: ad essere problematico è invece il modo in cui ci relazioniamo ad esse. Non riusciremo mai a superare le differenze se non impariamo a relazionarci e a comunicare con queste ultime in modo efficace. Ecco perché le persone che lavorano attivamente per bilanciare il potere (quando quest’ultimo è sbilanciato) dovrebbero imparare a comunicare in modo efficace. La fatica, insomma, è doppia.

Ad esempio, i vegani devono devono lavorare di più per colmare il cosiddetto gap comunicazionale: se stiamo cercando di creare un cambiamento, è necessario fare moltissima attenzione a come comunichiamo o il rischio è quello di rinforzare i meccanismi di difesa delle persone a cui ci rivolgiamo, anziché invitarle a una nuova modalità di pensiero.

Solo in questo modo riusciremo ad aumentare le chances che ciò che abbiamo da dire venga effettivamente ascoltato, anziché essere trascinati in un dibattito infinito sul tema.

Foto lightwise © 123RF.com

Le persone, però, cambiano quando sono forzate a farlo. Cambiare, infatti, significa uscire dalla propria comfort zone. In questo particolare momento storico, tuttavia, il cambiamento è urgente e necessario. Come si può velocizzare il cambiamento?

E’ una bella domanda e non so se ho una risposta adeguata. Nel mondo ci sono molte persone che sentono una forte vocazione, che sono consapevoli dell’urgenza, che hanno gli occhi ben aperti sulla realtà: e sono proprio queste le persone che possiedono l’energia e la motivazione per fare in modo che questo cambiamento avvenga. E’ fondamentale, quindi, che costoro imparino a comunicare, in modo che il lavoro che sono chiamati a svolgere sia più efficace.

Non di rado, infatti, essere “appassionati” di un dato argomento o sentire l’urgenza di fare qualcosa ci porta ad essere più coinvolti dal punto di vista emotivo, e questo rende molto difficile comunicare col fine di essere ascoltati. Tant’è vero che quanto sentiamo l’urgenza di agire, ci sembra quasi di non aver il tempo necessario per raggiungere il nostro scopo. E’ come se volessimo costruire una casa velocemente, così velocemente che non ci diamo il tempo di scegliere i mattoni giusti.

Dobbiamo permetterci di rallentare, di darci il tempo di far nostri gli strumenti dell’alfabetismo relazionale così da costruire una comunicazione efficace, sviluppando – allo stesso tempo – la giusta autoconsapevolezza.

Photo by Ross Findon on Unsplash

L’ultima domanda tocca maggiormente la sua sfera personale. Nella vita di ognuno di noi c’è un’epifania, un momento che porta consapevolezza e che fa mutare il nostro comportamento. Qual è stata la sua epifania e in che modo ha cambiato il suo modo di pensare?

Penso che la vita sia una serie di piccole epifanie, e spesso non ci si accorge nemmeno del fatto che stiano avvenendo. E sono proprio queste piccole e inconsce prese di coscienza che ci conducono lentamente verso il cambiamento. C’è un detto che dice che nessuno può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume sono gli stessi.

Dopo tutte queste piccole epifanie, poi, accade qualcosa di più importante e, forse, a quel punto si è pronti per il cambiamento. Nel mio caso l’epifania di cui ho avuto consapevolezza è racchiusa nel momento in cui ho mangiato il mio ultimo hamburger, che era contaminato: sono finita in ospedale in gravi condizioni e sono stata sottoposta a una terapia di antibiotici in vena. A causa di quell’hamburger ho smesso di mangiare carne. E dopo aver smesso di mangiare carne ho cominciato a informarmi sul vegetarianesimo e, con queste nuove conoscenze, ho capito cosa accade agli animali, all’ambiente e alla nostra salute quando mangiamo carne.

Ho quindi cominciato a condividere queste nuove informazioni con le persone intorno a me che, però, ho trovato estremamente riluttanti ad accogliere quello che tentavo di dir loro. Mi dicevano “non dirmi niente, o mi rovinerai il pranzo” o, ancora, mi chiamavano “pazza vegana attivista”. Sono state proprio queste reazioni a spingermi a studiare la psicologia del mangiar animali e la psicologia della violenza e della non violenza che, in fondo, mi hanno portato a fare quello che faccio oggi.

Serena Fogli

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