Secondo l'architetto elvetico Mario Botta bisogna riscoprire la magia della bellezza delle città. Non più prigioni di rumore e solitudine. Ma luoghi pensati per facilitare le relazione umane
Mario Botta rientra nel gruppo degli architetti più famosi a livello internazionale. Sempre impegnati nei cantieri di tutto il mondo, con un termine alla moda, sono oggi definiti archistar, anche se di questa figura Botta non ne condivide l’esibizionismo ma anzi si distingue per il modo di fare schivo e disponibile. Le sue famose opere, soprattutto edifici aperti al pubblico come biblioteche, luoghi di culto, musei e gallerie d’arte sono disseminati nelle più importanti città europee, americane e asiatiche dove si inseriscono nel rispetto della storia e della cultura del territorio, esprimendo la contemporaneità del proprio tempo. Non basta rispondere a esigenze tecniche, funzionali, abitative, sociali; fare architettura può significare anche dare forma al bisogno d’identità che l’uomo cerca nella storia dei luoghi e nella ricerca del sacro perché solo così, l’architetto-muratore, come lo definisce Botta, può suscitare emozioni.
Che cos’è per lei l’architettura?
L’architettura porta con sé la sapienza e la saggezza che trasforma la natura in cultura. Il primo atto del costruire è mettere una pietra sul suolo e questo segna il passaggio da una condizione di natura a una condizione di cultura. L’uomo esprime con la sacralità del gesto un’esigenza che modifica l’equilibrio naturale delle cose. L’architettura si fa carico di questa spinta utopica e, sia pure all’interno delle grandi contraddizioni della contemporaneità, emerge come un valore che segnala la propria presenza. Sono convinto che l’arte del costruire sia ancora un’arte maggiore perché quello che realizza l’architetto dura oltre la sua vita, è qualcosa che resta ed è questo il potere di chi fa il mio mestiere. Che è quello di interpretare, dando forma ed espressione, i bisogni e la cultura del periodo in cui si vive. Questa testimonianza si realizza in termini esclusivamente positivi perché il lavoro dell’architetto è di provare ad andare al di là degli aspetti tecnici, funzionali, economici e sociali per dare una risposta, al meglio delle sue possibilità, alle speranze del proprio tempo.
Cosa risponde a coloro che non sempre apprezzano l’intervento dell’architetto?
L’architettura è una specie di termometro del proprio tempo: l’architetto non fa che una sintesi tra la domanda della collettività e le interpretazioni della cultura del periodo in cui opera, usando i materiali di cui ha disponibilità, fornendo letture che appartengono a quello specifico momento storico. Pensiamo alle grandi architetture auliche, ad esempio a quella stalinista che non è altro che un’espressione del potere dell’epoca. Allora, alla collettività non resta che accettare queste condizioni dettate dal momento. Voglio dire che, se siamo scontenti delle nostre periferie, dovremmo pensare che l’architettura non fa altro che rispecchiare una città sociale violenta e ghettizzante che non permette spazi belli, idilliaci, godibili.
Quando l’architettura oltre che all’estetica risponde a principi di eticità?
Etica lo dovrebbe essere sempre, perché l’architettura dovrebbe dare immagine allo spazio e ai diritti abitativi contemporanei. Se non la vediamo come uno spazio di godimento, ma leggiamo l’architettura come una prigione, una manifestazione di violenza o di retorica del potere significa semplicemente che questa è la realtà dei fatti. L’architettura dovrebbe sempre mettere il cittadino a proprio agio perché possa usufruire al meglio dei beni e dei servizi e possa anche godere del tempo libero. Ciò che mi indigna non è tanto la degenerazione architettonica legata ai grandi eventi, di cui tanti parlano, ma l’accettazione tacita delle periferie urbane, delle aree dove le persone vivono quotidianamente, le residenze sociali ghettizzate, lontane da tutto, con questi balconi che sono le caricature di un giardino dietro cui i pochi vani sono legati tra loro da un ascensore. Questo per me è un segno di violenza, di non adesione ai diritti abitativi.
Eppure la città rimane il luogo privilegiato del vivere di molte persone…
La città rimane un bene fondamentale perché è la forma di aggregazione umana più flessibile, raffinata, colta, bella, capace di rispondere alle esigenze dell’uomo nelle sue diverse modalità, che sia mai stata inventata dal neolitico ad oggi. La stratificazione storica nella città europea ha un primato rispetto ai modelli americani e asiatici, in termini di diritti abitativi e di forma degli spazi. Se si chiede dove si trova la migliore qualità di vita, la risposta quasi sempre prende come modello di riferimento il centro storico europeo, ma soprattutto italiano, dove la forma di aggregazione e la struttura di relazione e comunicazione ha trovato esempi di realizzazione splendidi. Questo è sorprendente e paradossale se si pensa che si tratta di città di popoli estinti, di centri urbani che non sono nati per rispondere ai bisogni di oggi.
Allora, perché si preferisce vivere nei centri storici delle città?
In quella che identifichiamo come città europea riconosciamo il territorio, la storia e la memoria di cui abbiamo bisogno, al di là delle semplici funzioni abitative. Riconosciamo valori che danno il senso di appartenenza alla storia dell’umanità, che ci fanno sentire parte di una stessa cultura. La città rappresenta un bene collettivo dove oggi riusciamo a filtrare insieme la globalizzazione da un lato e, dall’altro, la ricerca delle radici profonde che ci legano all’identità di una storia che è nostra. Questo territorio della memoria, rappresentato dalla città europea, è così straordinario che possiamo considerarlo persino come l’ultimo antidoto alla follia della guerra. Se ci fosse infatti la consapevolezza piena dell’identità rappresentata da un luogo, sarebbe questa una forma di resistenza alle possibili distruzioni attuate nella pratica sciagurata della guerra.
Quali sono le tre priorità che potrebbero rendere più vivibile le città del futuro?
La mobilità è uno dei problemi cardine. Per godere dei vantaggi della globalizzazione è fondamentale fare riferimento alla mobilità delle idee attraverso i nuovi strumenti informatici, e anche alla necessità di mobilità fisica all’interno di una megalopoli, e questa non è una sfida facile. La seconda priorità fa riferimento ai nuovi equilibri ambientali, perché se non le rendiamo più sostenibili dal punto di vista ecologico, le nostre città possono solo diventare delle prigioni di morte. Terzo, riscoprire il sogno della bellezza, perché se la città è il luogo privilegiato di comunicazione questa non può realizzarsi in un contesto brutto, triste, avvilente, pieno di rumore. Va riscoperta la città, che in fondo è nata per vincere il sentimento terribile della solitudine, nei suoi valori più essenziali. Recuperando lo strumento collettivo di comunicazione tra gli abitanti, al di là delle classi sociali, forse riusciremo ad immaginare uno spazio migliore dove vivere.
Ci spiega perché è ricorrente nella sua attività progettuale la costruzione di molte chiese?
Da almeno vent’anni mi trovo a riflettere attorno al tema del sacro, come una specie di ossessione perché se potessi costruirei solo cappelle, chiese, sinagoghe, moschee. E molto più gratificante costruire spazi dello spirito perché questo risponde al bisogno di testimoniare un luogo che parli anche di altro, di qualcosa in più del semplice soddisfacimento tecnico-funzionale. Forse, questa esigenza è anche l’espressione della maturità del fare architettura nello sforzo di trovare valori simbolici, filosofici, metaforici; di capire che cosa oggi può dare un’emozione in una società che apparentemente è satura di ogni benessere e di ogni opulenza; di rispondere a chi è alla ricerca del sacro, anche da laico, quando entra in un tempio che è figlio del proprio tempo. Le grandi tensioni del passato vengono da questo bisogno di sacro che è l’obiettivo della bellezza. Se penso alla Guernica di Picasso, questa opera può essere vista dal punto di vista del linguaggio estetico come un quadro mediocre, che diventa bellissimo quando esprime la forza del grido di un uomo che non deve uccidere un altro uomo. Il lavoro dell’architetto è fatto anche di questo.
Lei dice spesso che anche le nostre emozioni dipendono dall’uso che facciamo del territorio. Guardando a ciò che si è fatto nel nostro Paese, siamo allora condannati all’infelicità?
L’Italia ha una fonte infinita di bellezza. Se escludiamo quello che di male è stato costruito negli ultimi cinquant’anni, resta l’equilibrio ambientale del paesaggio, del territorio agricolo, mentre è all’interno del costruito che abbiamo fatto troppo e male. Per porre rimedio bisognerebbe ricorrere all’urbanistica delle demolizioni. Una volta verificato che l’equilibrio economico è soddisfatto, è giusto pensare ad un’architettura che corregga gli errori del passato.
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