L'incontro con Bobò, un malato di mente, gli ha cambiato la vita. E il modo di interpretarla sulla scena. Così l'attore ligure Pippo Delbono racconta la sua visione del teatro. E come, da vero sovversivo, prediliga gli anziani ai giovani
Provocatorio e antiretorico, ironico, profondamente umano sino a esprimere una spiritualità autentica e non di maniera, lucido nella ricerca della verità come valore che più conta. Tutto questo e molto altro è il teatro di Pippo Delbono (www.pippodelbono.it) autore di testi, regista, attore del teatro contemporaneo, arrivato con i suoi spettacoli in tutto al mondo, chiamato a partecipare ai più importanti festival internazionali. La sua compagnia teatrale, e anche questa è una scelta non convenzionale, è fatta in molti casi di attori con storie personali difficili, di persone con esperienze di marginalità, perché è lì che Delbono trova la bellezza e la verità della vita. I temi del suo teatro, in bilico tra urgenze personali e l’espressione di malesseri sociali contemporanei, parlano del dolore, della diversità, della malattia, della volgarità, del razzismo, della menzogna, della prigionia, dell’omologazione. Negli anni i suoi lavori si sono imposti per lo sguardo provocatorio, come il manifesto di una visione lucida sul mondo e sull’uomo, capace di scuotere e commuovere. Tutto questo è il risultato di un lavoro a lungo elaborato, pensato, che rompe gli schemi ma partendo comunque dallo studio della tradizione del teatro classico. Gli incontri e le esperienze in Italia e all’estero, hanno poi portano Delbono a esplorare e a mettere a fuoco nuove forme di espressione artistica che hanno dato vita alla sua idea di teatro come testimonia anche il suo ultimo lavoro Dopo la battaglia.
I suoi lavori in che modo rompono gli schemi del teatro convenzionale?
L’aspetto più importante è fare uno sforzo per uscire dal linguaggio perché il teatro deve costituire un cambiamento di espressione, altrimenti si uniforma a una realtà in cui tutti si rappresentano usando gli stessi schemi. Il modo in cui usiamo il linguaggio può essere un atto ancora più rivoluzionario dei concetti che si esprimono. Siamo infatti tutti capaci di fare proclami contro qualcosa o per affermare certe idee, ma per essere davvero rivoluzionari bisogna cambiare il linguaggio, reinventandolo. L’arte è sempre rivoluzione, non per quello che dici ma per come usi le parole e gli altri mezzi di espressione artistica.
È per questo che lei ricorre a forme diverse di espressione artistica, come arti visive, tecniche cinematografiche, musica e danza?
Come mi è stato detto di recente, se il mio teatro ricorre alla musica come alla danza, le usa per distruggerle, per poi reinventarle, ricreando un’altra idea di musica , un’altra possibilità di danza. La musica diventa la persona, come nel caso del violinista Alex Balanescu che suona, sul palcoscenico di Dopo la battaglia, in rapporto con la danza, e la danza diventa un senso, non è danza per danzare fine a se stessa. Del resto anche il testo, come può essere un racconto di Kafka, non è preso per darne una rappresentazione convenzionale. Per la prima volta, dopo una lunga ricerca e qualche perplessità, ho voluto usare anche del cinema, proiettato durante lo spettacolo. L’ho fatto perché nel teatro, anche nel mio, si respira quest’aria borghese, e se vedi delle immagini come quelle che uso e che riguardano un gruppo di malati mentali, un uomo rumeno che cammina e chiede l’elemosina, i barconi di immigrati in arrivo sulle nostre coste, mia madre nella cucina di casa sua…è come aprire una porta alla vita e sulla vita, aprire alle esperienze.
Cambiare il linguaggio vale anche fuori del teatro?
Se Pasolini fosse vivo dovrebbe reinventarsi anche lui un nuovo linguaggio per essere ancora rivoluzionario. Altrimenti sei reazionario. In politica, di fronte a certi risultati, a certe situazioni degli ultimi anni, dobbiamo ammettere che ci comportiamo con un linguaggio che peschiamo nel profondo di noi stessi. Perché tutti dobbiamo fare i conti con la nostra tendenza a essere reazionari. L’artista ha l’obiettivo di opporsi a questo e guardare alle cose con lucidità.
Forse qualcosa di buono potrebbe arrivare dalle generazioni più giovani. Che ne pensa?
Se guardo i giovani mi accorgo che si muovono tutti nello stesso modo, usano il corpo nello stesso modo, hanno gli stessi comportamenti, hanno tutti lo stesso accento, hanno gli stessi miti, lo stesso modo di baciarsi, e c’è qualcosa di noiosamente identico in tutto questo. E’ quello che intendo con “stare dentro il linguaggio”. Il mio teatro, che pure è quanto di più diverso ci sia rispetto alla tradizione, è seguito dagli abbonati di una certa età e da quelle signore che riempiono il teatro Argentina qui a Roma, piuttosto che dai giovani verso i quali, in questo momento, confesso di avere una specie di intolleranza. Per me è interessante che ci siano persone anziane che mi vengano a vedere, perché provo rispetto per la loro esperienza e il loro passato.
Nel sua ricerca di nuovo linguaggio anche l’uso del tempo non è convenzionale. Come mai questa scelta?
Qualcuno ha detto che nel mio teatro c’è una musicalità totale anche nella calma, nelle pause. In fondo si tratta di fare un viaggio emotivo, che ha un suo ritmo, che però non ha la caratteristica della velocità che siamo abituati ad attribuirgli. Si tratta di un equilibrio di tempi lenti che consente di fermarsi per ascoltare. C’è una frase che mi piace ricordare: «la pazienza è come una passione protratta nel tempo». Di solito si pensa che la pazienza non abbia ritmo. E invece no. Nella pazienza e nell’attesa c’è la passione. E nei miei lavori c’è ritmo anche nella calma. Pensiamo al Giardino dei ciliegi di Cechov dove il tempo è quello lento dell’attesa, o al teatro antico, o alla musica di John Cage con le sue pause, o a quell’unghia che incide sempre la tela senza fermarsi mai, che lotta sempre, che non si riposa mai. Sono espressioni del senso della morte, e anche della vita allo stesso tempo, di ogni attimo che passa che ci avvicina alla fine. Un artista questo non può mai dimenticarlo.
Il teatro tradizionale non conta per lei?
Il mio teatro si caratterizza per aver rotto con tutti gli schemi del passato, eppure io mi sento spesso più in sintonia con aspetti artistici che fanno parte della classicità, piuttosto che con certe forme che vorrebbero essere innovative. Rivoluzionare è anche conservare, trovare anche un avvicinamento con la tradizione. Io passo per quello che ha scardinato il modo di fare teatro tradizionale, eppure devo accettare anche ciò che mi porto dentro lo stomaco e di cui non posso fare a meno. Voglio dire che bisogna sempre fare i conti con Goldoni o Shakespeare, che nel loro tempo sono stati tra l’altro grandi rivoluzionari del teatro.
Perché, pensando alle sue opere teatrali, c’è sempre uno sguardo al dolore, sociale e privato, nei suoi lavori?
In questo momento storico non penso che il teatro possa essere intrattenimento, né che debba capire e giustificare tutti e tutto perché mi sembrerebbe un atteggiamento catto-buonista. Con il teatro abbiamo il bisogno di prenderci la responsabilità di affrontare e vincere le nostre paure, di guardare oltre. Tutto il teatro in fondo non fa che parlare della morte, come un concetto di verità profonda. Ma c’è un tempo per la guerra e un tempo per l’amore, per questo in Dopo la battaglia parlo anche di amore. L’arte serve per capire il senso dell’esistere, è sempre servita a questo, dal teatro classico greco in poi.
Quali sono le esperienze che più l’hanno segnata nella sua formazione di attore?
Il mio lavoro nasce dallo studio antropologico dell’attore. Pina Bausch è stata una parte importante che mi ha segnato, ma la mia formazione è legata soprattutto al teatro dell’Oriente che ho studiato a lungo. Durante soggiorni che ho fatto in vari paesi dell’Asia, specie a Bali, con un lavoro rigoroso ho appreso una tecnica e una sapienza che mi permettono di usare questo mio corpo, che è goffo in realtà, in maniera libera. Riesco persino a “danzare” insieme all’étoile dell’Opera di Parigi Marie Agnès Gillot…Un analogo lavoro sul corpo era iniziato anche prima, in Danimarca dove ero arrivato dopo essere andato via da Genova, ed è questa un’esperienza che difendo molto. Sono stato un grande amante del rock, quello di Frank Zappa, e per me il rapporto con la musica e l’uso della voce sono fondamentali. E poi ci sono le persone. Quando in un periodo difficile della mia vita, durante un laboratorio teatrale, ho incontrato per la prima volta Bobò al manicomio di Aversa dove era rinchiuso da quarantasei anni, ho capito che quest’uomo sordomuto e innocente mi avrebbe salvato la vita, e così è stato. Ho scoperto di nuovo il mondo attraverso questa persona che non aveva mai avuto contatti con il mondo esterno. L’ho portato con me ed è diventato in seguito un attore fondamentale della mia compagnia teatrale. A questo piccolo grande uomo, che oggi ha settantacinque anni, ho dedicato il mio ultimo spettacolo.
Nel suo ultimo lavoro (Dopo la Battaglia) c’è un riferimento preciso e un omaggio a Pina Bausch. Lei come la ricorda?
Pina Bausch ha sconvolto la storia del teatro e della danza. E mi ha cambiato la vita, dico davvero. Il film recente che Wim Wenders le ha dedicato non credo colga lo sguardo che aveva Pina nel guardare con un occhio diverso il mondo, quando magari esprimeva, proprio lei che ha cambiato la danza del ‘900, la sua paura di non essere capace di danzare come la zingara che aveva incontrato per strada, o quando usava il suo sguardo comprensivo, dal basso verso l’alto, nei confronti di una persona provata dalla vita come Bobò. È lo sguardo di un grande artista che vede la realtà come un bambino. Tutto questo lo ricordo io, e anche tutte le persone che hanno davvero conosciuto da vicino e amato Pina Bausch.
Del futuro del teatro che cosa pensa?
Non voglio imporre né insegnare nulla a nessuno, ma è anche vero che nel nostro teatro non accade niente da anni e che, per giunta, le scuole di teatro non formano i giovani attori nel modo più totale, perché non ci sono maestri che indichino una strada artistica, non si insegna a esprimere la necessità autentica di essere artisti. Spesso, quelli che sono colpiti dal mio teatro sono proprio le persone più semplici, non gli addetti ai lavori di un teatro che è stantio e neppure i rappresentanti di una certa cultura che non sa distinguere i nuovi linguaggi.
Le reazioni del pubblico che la viene a vedere in effetti sono molto diverse tra loro…
Il teatro per colpire deve mettere in discussione le tue certezze, “metterti in crisi la vita”, come ha fatto con me la prima volta che ho visto uno spettacolo di Pina Bausch. A teatro osservo molto le persone che mi vengono a vedere. Del resto so fare questo, usare lo sguardo per capire. E le persone che all’inizio sono perse, terrorizzate per quello che vedono sul palcoscenico, pian piano si trasformano negli occhi, nei corpi. E alla fine battono le mani a suon di musica, si mettono a ballare, ed è bello vedere che è stato fatto un percorso durante lo spettacolo, che c’è stato un risveglio. Quello che in scena ti corrisponde diventa il tuo spettacolo perché esprime una tua esigenza, e alla fine ti senti protagonista di una stessa visione del mondo. Ma a volte accade che le persone non abbiano voglia di mettersi in crisi. Hanno paura di guardare il mondo con occhi liberi, perché questo vuol dire uccidere una parte di se stessi per ricominciare dove non c’è più certezza, come diceva Pasolini. E una verità simile la si trova anche in uno dei principi del buddismo, quando dice che per arrivare a cambiare il mondo l’unica strada da percorrere è quella di cambiare se stessi. Credo che usare uno sguardo libero, il guardare anche se non capisci, serva per ricostruire un futuro.